26 aprile 1986, una data che tutto il mondo ricorda come uno degli avvenimenti più sconvolgenti del XX secolo. Quando nella notte di quel disastroso sabato scoppiò l’inferno in un lontano angolo dell’Ucraina ancora nessuno poteva immaginare le conseguenze incontenibili del disastro.
Quella notte, a seguito di un errore umano, il reattore superò la potenza massima consentita causando la fusione del nocciolo, che a sua volta causò un incendio che provocò l’esplosione della copertura permettendo così la fuoriuscita di materiale radioattivo, soprattutto iodio e cesio.
A Pripyat, cittadina a circa 3 km dalla centrale nucleare e in tutto il resto del mondo la notizia venne data in ritardo, troppo in ritardo. Le autorità sovietiche all’epoca decisero di tacere riguardo all’esplosione, credendo forse che l’incidente fosse recuperabile. Molti uomini persero la vita quella notte e nelle ore successive; vennero infatti inviate diverse squadre all’interno del reattore per sedare l’incendio e ripristinare la situazione. Tutte queste persone vennero volontariamente esposte a radiazioni altissime che non avrebbero permesso loro di sopravvivere in nessun caso.
Quando le autorità diedero l’allarme e organizzarono l’evacuazione delle città limitrofe erano già passati tre giorni.
Quando a Pripyat arrivarono i pullman per allontanare i cittadini, nel ristorante che una volta stava nel centro della cittadina vi era in corso un pranzo di matrimonio. Il supermercato della città, uno dei primi dell’intero paese, era in piena attività, fiore all’occhiello di un benestante centro urbano in cui il lavoro alla centrale dava da mangiare a tutti.
La vita era continuata normalmente, non vi era stato nessun allarme. Dal momento in cui venne dato, i cittadini ebbero solo il tempo di raccogliere pochi beni personali fondamentali, poi l’addio alla città. Le autorità però non comunicarono nemmeno in questo caso la realtà dei fatti; l’allontanamento dalle città infatti inizialmente venne comunicato come temporaneo, facendo sì che tutti lasciassero le proprie abitazioni colme di affetti personali, documenti, vite intere. In realtà, come oggi è ovvio, non fecero mai ritorno. I beni lasciati all’interno delle case vennero distrutti onde evitare lo sciacallaggio e, di conseguenza, anche in rischio di una contaminazione con agenti radioattivi anche in altre parti del Paese. Alcuni riuscirono però a portare via degli oggetti e materiali edilizi, vi sono infatti tutt’oggi diversi casi registrati di edifici, parchi o luoghi di altro genere che per anni hanno rilasciato agenti radioattivi nell’inconsapevolezza generale.
Oggi Chernobyl è abitata. Alcune persone, per lo più anziani, hanno deciso di tornare a casa e prendersi cura di quello che è rimasto. Vi è anche una struttura alberghiera, li i lavoratori hanno turni a rotazione di due settimane, ai termini delle quali devono uscire dalla città per lo stesso lasso di tempo. A suo modo la vita è continuata, le persone lavorano alla centrale, vi è il quartier generale degli operai con uffici e una mensa che offre ottimo cibo ucraino, qualcuno cammina per strada, qualcuno ancora lavora la terra.
La realtà però è che quell’angolo di Ucraina, per non parlare della vicina Bielorussia, anche lei fortemente colpita dal disastro, è morto. La terra è contaminata, non è consigliato nemmeno camminare sul suolo, meglio restare sull’asfalto. Il silenzio è assordante, la natura ha conquistato le strade, i palazzi, qualsiasi cosa.
Pripyat, la città più vicina al reattore, oggi non esiste quasi più. Alberi e rampicanti hanno invaso le strade trasformandone i percorsi, gli edifici cadono a pezzi. Esiste il ricordo di Pripyat, esiste quel dolore palpabile che si sente, che si respira per sue vie più simili a labirinti di rampicanti che a strade.
La grande piscina comunale costruita per gli operai della centrale è ormai solo una buca azzurrina piena di calcinacci, i corridoi della scuola sono invasi di libri, fogli, maschere anti gas. L’asilo, quello forse è il luogo più inquietante, un perfetto set dell’orrore. Solo che non è un film, quei lettini erano davvero il giaciglio sicuro di tanti bambini, non era e non deve essere nemmeno oggi un set fotografico per amanti della tragedia. Chiunque vada a visitare oggi questi luoghi deve scontrarsi con le “scenografie” create per documentari e fotografie; è importante però che ciò non inganni, non c’è nulla di fittizio, solo qualche oggetto è stato spostato qua e là.
Chernobyl, Pripyat e le altre centinaia di villaggi e cittadine coinvolti ora restano in silenzio. Per un errore umano, per ignoranza o per disinteresse, ora questo angolo d’Europa non ha più nulla, è solo un ricordo che scomparirà con gli anni. Anche se oggi i luoghi del disastro sono divenuti siti turistici, anche se oggi il più grande “sarcofago” mobile del mondo è stato posizionato sopra il reattore esploso, sempre meno persone sanno cos’è accaduto in quella notte maledetta, sempre meno persone vedono l’enorme e incalcolabile rischio che si cela dietro l’energia nucleare.
Mariapaola Boselli-Pressenza
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