Pochi anni, per odiare un mondo dorato e pieno di successi. Pochi secondi per mettere fine a una giovane vita, facendo sprofondare nel dolore e nell’incredulita’ milioni di fan in tutto il mondo. È indelebile il segno lasciato da Kurt Cobain nel mondo della musica, e non solo in quello. Oggi come 25 anni fa le domande sono sempre le stesse: cosa spinge un uomo talentuoso, bello, ricco, a mettere fine ai propri giorni? Era l’8 aprile del 1994 quando il suo corpo senza vita fu ritrovato nella serra presso il garage nella sua casa sul lago Washington, a Seattle, mentre la morte fu fatta risalire a tre giorni prima, al giorno 5. Vicino al suo cadavere, il fucile con cui si uccise e una lettera, appunto di suicidio, indirizzata ad un amico immaginario, ‘Boddah’. Qui citava un passaggio di una canzone del cantautore canadese Neil Young, considerato il padrino del Grunge, Hey Hey, My My (Into the Black): ‘It’s better to burn out than to fade away’ (‘È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente’). Una morte difficile da mandare giu’ e forse proprio questo ad alimentare la leggenda secondo cui sarebbe stato ucciso: la lettera, secondo qualcuno, era piu’ un addio alla musica che alla vita. Ma tant’e’. “Mi fa schifo quello che ho conquistato”: Kurt Cobain non ha mai nascosto il disagio per quello che era diventato. Bob Dylan, non uno qualsiasi, lo considerava il “portavoce di una generazione”. No, neanche questo ha mai accettato di buon grado. “Prima suonare era un’avventura, adesso e’ un circo che mi annoia”. Al punto di dire basta. Eppure sono bastati quattro anni ai suoi Nirvana per diventare leggenda. Quattro anni e tre album, dal 1989, con l’esordiente Bleach, passando per Nevermind, 1991, finendo con In Utero, 1993. Solo in un secondo momento sono arrivati la raccolta Nirvana e l’MTV Unplugged in New York. Pochi album, eppure sono entrati a piedi uniti nella cultura di massa e nello stile di vita di milioni di giovani.
Le camicie a quadrettoni e i jeans strappati, forse involontariamente ripresi al periodo d’oro del folk degli Anni 60-70, quello proprio di Neil Young, sono diventate improvvisamente fenomeno di massa. E poi la loro musica e il loro stile, che ha ispirato band negli anni a venire. Il massimo per qualsiasi artista. Ma non per lui. Che forse gia’ dal nome scelto per la band aveva lanciato dei segnali: “Nirvana- le parole di Kurt- significa liberazione dal dolore, dalla sofferenza e dal mondo esterno e questo si avvicina al mio concetto di punk”. L’anno che ha cambiato le sorti del Grunge e che ha pesato sulla vita di Cobain e’ stato il 1994, quando sulla sua strada e’ apparsa Roma. Oltre 9mila chilometri tra Roma e Seattle azzerati in poco tempo. Il 23 febbraio fece la sua ultima apparizione televisiva, insieme ai Nirvana, negli studi di Rai 3, nel programma Tunnel, condotto da Serena Dandini, cantando Serve the Servants e Dumb. Poche settimane dopo, era l’1 marzo, dopo l’ultimo concerto del tour europeo in Germania, gli vennero diagnosticate una bronchite e una laringite. Il giorno dopo volo’ a Roma, dove fu raggiunto da moglie e figlia, per prendersi una settimana di riposo. Durante la notte la moglie Courtney Love trovo’ il marito in overdose dopo aver ingerito cinquanta pasticche di Rohypnol mischiate a champagne. Portato al Policlinico Umberto I, fu salvato grazie a un cocktail di farmaci, prima di essere trasferito la mattina seguente all’American Hospital. Qui rimase in coma farmacologico per tutta la notte, ma dopo qualche giorno si riprese. Mori’ a 27 anni, entrando per forza nel ‘club 27′, quello di cui fanno parte artisti com Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones. Era il 5 aprile 1994, giorno in cui il mito divento’ leggenda.
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