Si parte con un kibbutz, poche tende e qualche strumento per lavorare la terra. Poi arrivano il filo spinato e le telecamere. Appena l’insediamento cresce, ecco l’esercito: e’ il segnale che si puo’ iniziare a costruire. Il panorama che circonda la tomba di ‘Erode il grande’ a Betlemme, Cisgiordania, e’ desolante. Le colline, un tempo pascoli verdi per i pastori palestinesi, sono ormai invase dagli insediamenti dei coloni israeliani. Sull’ultimo spazio libero, gia’ iniziano a spuntare le prime case. Siamo sulla strada per Hebron, piena ‘area C’, territorio palestinese controllato dall’esercito di Tel Aviv. I check point e le ‘watch tower’, le torrette utilizzate dai militari israeliani, sono ovunque. Ad ogni incrocio, decine di telecamere. “Ufficialmente questo territorio dovrebbe essere palestinese- mi spiega Ayoub, la mia guida- Ma quando i coloni si insediano ed arriva l’esercito, Israele ne prende il controllo. Ormai l’area A, quella sotto il pieno controllo palestinese, resiste solo all’interno delle citta’”. E’ sabato, Shabbat, e la strada scorre libera. Nel panorama, le case palestinesi sono immediatamente riconoscibili: “Hanno i bidoni per conservare l’acqua sui tetti. Succede spesso che il nostro governo non paghi regolarmente e gli israeliani stacchino l’acqua corrente. Comunque meglio che a Gaza, dove l’elettricita’ viene fornita per 4 ore al giorno”. Gli chiedo se pensa se la situazione, con le elezioni in Israele, possa cambiare. Scuote la testa prima di invitarmi a non buttare la sigaretta fuori dal finestrino: “C’e’ un check point qui davanti ed ogni scusa e’ buona per darci fastidio. Non cambiera’ nulla: vogliono solo renderci la vita impossibile per spingerci ad andarcene”.
Per la Cisgiordania o, come la chiamano i suoi abitanti, la ‘West Bank’, le tensioni sono pane quotidiano. Ma le elezioni in Israele vogliono dire guerra. Ayoud mi indica una torre di guardia sporca di fuliggine e vernice, segno di scontri recenti: “Da li’, la settimana scorsa, hanno sparato ad un ragazzo di 19 anni”. Perche’? “Non lo sappiamo, le telecamere le controllano loro, fanno sapere solo quello che vogliono”. Percorriamo 800 metri, un’altra torretta, altri segni di scontri: “I cecchini li’ sopra tengono sotto tiro l’ingresso di quella scuola”, dice indicando il compound costruito dalle Nazioni Unite. Mi spiega che le forze israeliane temono che gli studenti possano lanciare i sassi contro le auto dei coloni, cosi’ ogni assembramento nel piazzale antistante la scuola e’ proibito. “La settimana scorsa, dopo i raid su Gaza, gli studenti hanno provato a protestare ma sono stati immediatamente dispersi da un forte lancio di fumogeni”. Provo a controbattere, dicendo che la verita’ non sta mai da una sola parte, che anche gli israeliani contano vittime: “Certo, ma la sproporzione di forze e’ troppa. Un palestinese attacca quando e’ disperato, quando gli hanno arrestato il padre, ucciso un fratello o portato via la casa. Gli israeliani lo sanno che non possono fermare un uomo che ha deciso di morire, per questo hanno cosi’ tanta paura”. Penso ai casi di ‘cronaca’, a quel padre che, dopo l’omicidio del figlio, ha caricato un check point uccidendo 5 soldati prima di essere ‘neutralizzato’. O a quel ragazzo, stanco dei soprusi, che si e’ ribellato ai controlli uccidendo tre militari prima di dileguarsi nel nulla: “Lo hanno cercato per un mese, mobilitando piu’ di 4mila soldati e battendo strada per strada tutta la West Bank. Alla fine l’hanno trovato e trasportato in una prigione in Israele”.
Svoltiamo a destra, un cartello rosso con scritte bianche in arabo ed ebraico avverte che quella zona e’ vietata ai cittadini israeliani. ‘Benvenuti a Hebron’, l’unico luogo della West Bank dove i coloni ebrei si sono insediati nel cuore della citta’, rivendicando il diritto di trasformare la moschea, sede delle tombe di Abramo e Isacco, in una Sinagoga. Hebron e’ un calderone pronto a esplodere in ogni momento: “Se succede qualcosa, succede qui” dicono i residenti. Nel 1994 un colono statunitense, travestitosi da militare, apri’ il fuoco sui fedeli musulmani durante la preghiera, facendo 60 morti prima di essere linciato dalla folla. Nelle proteste che seguirono, l’esercito israeliano uccise altri 30 palestinesi. Oggi si contano 400 coloni israeliani protetti da una guarnigione di circa 3mila militari, la moschea e’ stata divisa a meta’ per creare una sinagoga e i fedeli musulmani possono accedere alla loro parte solo dopo aver presentato i documenti ai militari di Tel Aviv. Un uomo in abiti civili e con un walkie talkie in mano ci indica dove parcheggiare. “È un poliziotto palestinese. Non possono portare l’uniforme ne’ armi- dice l’autista- Gli israeliani non lo permettono”. Scendiamo dalla macchina, vediamo delle piccole finestre con gli scuri verdi e delle scale a pioli di legno poggiate davanti. “I coloni si sono insediati dall’altra parte della strada e hanno murato gli ingressi di queste case. Gli abitanti, adesso, devono entrare dalle finestre”. Arriviamo nella citta’ vecchia di Hebron. I portoni gialli dei negozi di quello che era uno dei mercati piu’ importanti della Palestina sono quasi tutti chiusi. “Circa il 90 per cento dei commercianti si e’ trasferito nella citta’ nuova”, spiega Ayoub. Sopra di noi una rete metallica piena di bottiglie di plastica e sacchi neri. “I coloni abitano qui sopra. Per spingerci ad andarcene, buttano i loro rifiuti sulle nostre teste. Questa rete e’ la nostra unica difesa”.
Welcome’ e’ la parola che sentiamo piu’ spesso mentre camminiamo per queste strade ormai dimenticate dai turisti. Ci fermiamo a bere un caffe’ in uno dei pochi negozi aperti, proprio davanti alla moschea, a due metri dal posto di guardia israeliano. Gli occhi dei militari ci scrutano attenti. Il proprietario versa da bere, ride, racconta storie di quando era ragazzo e ci da’ un consiglio: “Pensate a vostra madre e smettete di fumare, quella si che e’ una cosa pericolosa”. Ride. Abdulraouf Al-Mohtaseb, questo il suo nome, e’ un simbolo della resistenza di Hebron. Piu’ volte gli israeliani hanno provato a comprare la sua casa, “arrivando a offrirgli 100 milioni di dollari”, scrive il portale online ‘Aljazeera’ in un servizio a lui dedicato. “Ma lui si e’ sempre rifiutato, a qualsiasi prezzo”, spiega Ayoub. “Quella e’ la sua casa e non se ne andra’. Noi siamo felici perche’, nonostante tutto, viviamo sulla nostra terra ed un giorno il mondo celebrera’ il nostro coraggio. Gli israeliani invece hanno paura, girano armati perche’ sanno di non essere a casa loro. E’ questa la nostra vittoria”.
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