L’immagine di un Abruzzo interno aquilano all’indomani dell’Unità, legato esclusivamente alle fortune della industria armentizia, non pare più storicamente corretta, alla luce di recenti ed approfondite indagini sulla realtà socio-economica locale nel secolo XIX. Meno prodiga era la natura dal punto di vista dei prodotti della terra, tanto più prende corpo il settore artigianale che interagendo con le attività agricole, determinava le cosiddette protoindustrie. Il censimento generale del Regno d’Italia nel 1861, vedeva ad Aquila (nel 1861 “degli Abruzzi”, dal 1939 “L’Aquila”), la presenza di originarie forme di attività manifatturiere.
Tali opifici non potevano contare su grandi risorse economiche, servendo nelle campagne per integrare il reddito delle classi contadine, eppure, cercavano di rinverdire la grande tradizione artigianale aquilana dei secoli XIII-XV, tanto che come scrisse Niccolò Machiavelli nelle sue “Istorie Fiorentine” (1525, n. 5), la città era la seconda per importanza in tutto il Regno di Napoli. Le piccole imprese aquilane che tentavano di aumentare la produzione, onde uscire dalla dimensione dell’autoconsumo, erano votate al comparto tessile e specificamente laniero, vista la resistenza della struttura armentaria; indubbiamente, sfruttavano le risorse comunque esistenti nel territorio, di qui, oltre alla rilevanza delle ditte di legname, che però eccessivamente depauperavano le ricchezze boschive, si palesava un discreto numero di operatori del settore alimentare, per una sapiente maestria dell’arte culinaria difesa nei secoli, dalle influenze esterne a causa, invero, della orografia del luoghi. Proprio la impervia fisicità della natura nella sua varietà, induceva a delle derrate se non quantitativamente, almeno, qualitativamente peculiari e che caratterizzavano la identità dell’Aquilano, oltre i confini regionali, insomma, non solo destinabili all’autoconsumo.
Nella prima storica rassegna delle industrie dell’Abruzzo Ulteriore II, a cura di uno degli esponenti più insigni del patriziato aquilano, il barone Teodoro Bonanni nel 1888, si apprende della esistenza di opifici a carattere familiare, sottesi alla fabbricazione di rinomati liquori e dolciumi. Entro questo speciale comparto alimentare, un importante opificio per numero di occupati, livello produttivo e visibilità su mercati nazionali ed esteri, era quello dei “Nurzia”. Le origini di questa ditta vanno fatte risalire a Saverio Nurzia, nativo (dal falegname Bernardino) nel 1736, ad Arischia, ad ovest al Gran Sasso, fra le capitali della industria armentizia e del legname di faggio, intagliabile in tini, arche, ed arredi pastorali mirabili in tutto il Napoletano, da una sequela di casati artigiani, quali i Cacchio, Testoni, Gizzi, Capannolo, fautori di non poche avventure imprenditoriali nell’Aquilano, nei tempi a venire. Mentre Arischia è attraversata da forti dinamiche sociali, per effetto delle progressive rivendicazione dei naturali verso i marchesati dei Cappelli, i detentori del Chiarino ricco di acque, boschi, pascoli, Saverio, gradualmente, domiciliava la sua professione di tinaro e distillatore di erbe montane nel 1769, al quarto amiternino di Aquila, a capo piazza del Duomo; il figlio Gennaro, nato nel 1788, coltivò con successo l’idea di maggiorare la produzione di liquori, ovvero di pregevole china ad uso delle élites cittadine, le protagoniste della ruralizzazione settecentesca post sisma del 1703.
Nel contesto di una Aquila volta a mantenere il ruolo di capitale amministrativa degli Abruzzi, anche dopo la Restaurazione del 1815, la ditta Nurzia conobbe una piccola svolta con Francesco Saverio che nel 1835, su rescritto di Ferdinando II di Borbone, pur continuando a smerciare pregevoli tini, apriva in una piazza del Duomo, valorizzata dall’urbanistica del 1826, una bottega per la vendita al minuto di liquori e dolciumi. La trama commerciale dei Nurzia venne rafforzata dal nipote Ulisse, che ligio alle indicazioni di famiglia, in una Aquila perdente smalto imprenditoriale dopo l’Unità per via di un certo isolamento ferroviario, intese investire somme per l’importazione da piazze nazionali ed estere di derrate alimentari, ovvero, dallo champagne a prodotti esotici, passando per il prezioso cacao.
A fine Ottocento, la “Saverio Nurzia & Figli” poteva vantare un secondo negozio sul Corso Vittorio Emanuele II, vicino all’elitario dal 1865 Circolo Aquilano, e laboratorio a porta Napoli, quasi a sintetizzarsi, in queste due nuove denominazioni dei luoghi di impresa familistica, i cambi di regime avvenuti ad Aquila degli Abruzzi. L’estro dei Nurzia, evidentemente, autosedimentatosi da diuturne fatiche alle falde del Gran Sasso, fra verdi faggeti ed acque limpide, elaborava una sempre più sopraffina arte pasticcera, dalla quale scaturiva il torrone “tenero al cioccolato”. Nota prelibatezza, il torrone, dal tempo delle guerre dei Sanniti contro Roma ed a Tito Livio, secondo una leggenda inventata alle Crociate, più o meno in contaminazione Arabica, di sicuro, in una esclusiva pasta di miele e mandorla bianca, sfornato dai dolciari di Cremona nel 1441, per le nozze fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti in unione dinastica, sancita dal celeberrimo “Torrazzo”.
Proprio nel ‘400 dorato aquilano sarebbe spuntato un torrone, certo, privo del cacao, stando allo studio dell’Accademico di cucina Luigi Marra nel 2010. Dunque, col torrone si valorizzava un prodotto della cultura artigianale municipale e che grazie alla credibilità dei suoi creatori, incontrava il gusto del pubblico, per la segretezza della ricetta messa a punto da viaggi in Europa, da Ulisse e qualità finissima dei suoi ingredienti naturali; sicché il dolce aquilano fu meritevole di medaglie e riconoscimenti in diverse esposizioni dolciarie della penisola ed in Svizzera, fino a ricevere elogi di papa Pio X, sin lì, probabilmente, aduso allo zuccherato torrone romano. Una piccola parte del successo riscosso dalle prelibatezze Nurzia, ufficialmente con marchio depositato nel 1910, stava nelle forme di presentazione del prodotto, le cui eleganti confezioni recanti una donna dalla foggia in stile parigino, sottesa ad edificare una torre con le scatole di torrone, erano ad opera di artigiani milanesi; mentre, riguardo alle campagne pubblicitarie, ci si rivolgeva a cataloghi realizzati dalle primissime officine cartarie di tutta la penisola, quelle di San Leucio a Caserta.
Nell’era delle palingenesi sociali la ditta Nurzia realizzava, a fronte di ingegni ed aggiornamenti sul campo, una piccola rivoluzione nel comparto dolciario continentale, in quanto la specialità natalizia dominante era il succitato cremonese torrone, ma che per taluni esteti del gusto, era caratterizzabile da progressiva durezza. Invece, l’inconfondibilmente aquilano torrone “tenero al cioccolato”, peraltro fruibile in altre stagioni, nelle sue tre varianti, come dai cataloghi di inizio 900, al cacao “uso Veneto” ed “uso Cremona”, nonché alla vaniglia, si imponeva nelle tavolate delle feste di fine anno degli italiani. Grossi nomi italici del settore alimentare mostravano interesse ad acquistare la ricetta del torrone da Ulisse, che orgogliosamente rifiutava queste profferte, poi, pensando di portare la produzione del dolciume a Milano, onde diffonderlo nel nord-Europa. Nonostante un afflato di risorse economiche importanti, l’aquilanissimo torrone “tenero al cioccolato”, le cui confezioni esibivano oltre al nome di Aquila, anche quello della capitale economica del Paese, scontava diverse difficoltà: la concorrenza degli omologhi cremonesi, disattenzioni gestionali delle distribuzione, forzata diversità degli ingredienti, tipo l’acqua fresca e chiara del Chiarino, il climaterio umido milanese.
Coraggiosamente, Ulisse reputò opportuno dismettere il suo progetto di una fabbrica milanese. Ritornato nel suo ambiente naturale di produzione, tanto negli ingredienti che nelle capacità delle maestranze, il torrone Nurzia al prezzo di lire cinque, riguadagnava fette di consumatori, grazie ancora, all’uso efficace delle primigenie forme di pubblicità, poiché le scatole ebbero impresse le oleografie del grande pittore Teofilo Patini: celeberrima la riproduzione nel 1882 del quadro con immagine del pastore difensore del gregge dalle incursioni delle aquile ed esposto al Liceo “D.Cotugno” di L’Aquila. Con questo notevole testimonial pittorico si denotava della volontà di accreditare un prodotto tipico regionale, come del resto, facevano altre imprese del rampante comparto dolciario abruzzese, si pensi ai vari adriatici parrozzi e centerbe, griffati dai motti del Vate Gabriele D’Annunzio. Un amico ed allievo dell’artista sangrino, Carlo Patrignani, versatile personaggio dell’attivismo giolittiano locale, già restauratore al Teatro comunale, fu l’affrescatore, alla moda dei café chantant di Parigi, della famosa bottega Nurzia, a capo piazza del Duomo. I contraccolpi del sisma marsicano del gennaio 1915 non furono lievi ad Aquila, per vittime e puntellamenti nel centro storico, inducendo anche la Ditta Nurzia, temporaneamente, al trasferimento dell’attività in una baracca di legno, sempre a piazza del Duomo.
A seguito dell’ingresso italico nella Grande Guerra, come tutte le imprese locali, quella che ormai era invalsa a fabbrica del torrone aquilano, intese contribuire da par suo alla mobilitazione patriottica che vide in guisa interclassista soccorsi ai soldati e sfollati al fronte. Il mutamento di regime, dopo il 28 ottobre 1922, non provocava particolari traumi per la produzione dei torroni Nurzia, punto di vanto della Corporazione provinciale degli imprenditori, sebbene nel settore, a livello locale, bisognasse registrare la concorrenza della rampante “Perugina”, sbarcata in città nel 1933, in un sito scelto personalmente dalla fondatrice dei “Baci”, Luisa Spagnoli, ai Portici del Liceo-Convitto rimodernati nella temperie della Grande Aquila. Difficoltà sopraggiunsero al periodo autarchico per l’impossibilità d’importare il cacao pregiato; tali disagi di approvvigionamento, gradualmente superabili, del resto, all’epoca, per gli italiani, vi erano i consigli ai consumatori di “Petronilla” , al secolo Amalia Foggia-Della Rovere sulla Domenica del Corriere, tipo per il cioccolato, un impasto sostitutivo di farina di carrube, nocciola, olio, miele o zucchero, da cui ad esempio, nelle Langhe, nacque la “SuperCrema”, l’antesignana della “Nutella” di Novi Ligure.
Problematiche di surrogati a parte, un decisivo evento nella fabbrica dei Nurzia avvenne nel 1940, quando Ulisse cedeva il testimone ai suoi rampolli; la spartizione aziendale, previde in fedecommesso ai nipoti del figlio Tito, lo storico punto a piazza del Duomo, il laboratorio di Porta Napoli e vicina villa liberty; alle figlie Ada e Ines fu fatto dono dei brevetti ed uso del marchio Nurzia per le produzioni dolciarie. Si riusciva a proseguire la produzione del torrone aquilano garantendo una solida attività economica, per il contesto locale, in quel drammatico periodo della seconda guerra mondiale. Con la Ricostruzione post 1945, nella nuova configurazione imprenditoriale dell’Aquilano sotto l’egida del laniero Giuseppe Mori, la municipale industria principe del settore dolciario accentuava il suo processo di produzione: si tentò di caramellare lo zucchero riscaldandolo con la fiamma a gas ed apparecchi sotto vuoto, ma si dovette constatare come il torrone smarrisse il suo inconfondibile sapore, allora tornandosi alla lavorazione del dolciume natalizio per antonomasia imperniata sulla fiamma del faggio arischiese.
L’impresa diversificava la gamma dei prodotti lanciando il “Nurziarello” dalla glassatura finissima in cacao e dai gusti al rhum, vaniglia, caffè, e, la “Ferratella”, un tipico dolce abruzzese la cui ricetta si perde in trame culinarie antichissime stando al gourmet italico Massimo Lelj nel 1933, ma che in salsa aquilana a parte l’uso degli ingredienti tradizionali e la schiacciatura della pasta di anice nei ferri, ebbe la novità della leggerissima copertura in cioccolato. Pur incontrando i favori di una massa di consumatori extra-moenia, vi erano della criticità implicite nella fabbrica nurziana circa la necessità della ristrutturazione di un modello di gestione familiare più al passo coi tempi. Da un lato l’Antica Ditta Fratelli Nurzia di Tito Nurzia con implementazione di macchinari sofisticati per la mescola di cioccolato, ma non per la sua spalmatura da farsi manualmente per non incorrere in deviazioni di gusto; dall’altro, il logo “Sorelle Nurzia di Ada e Ines Nurzia”, con prospettive di incrementi societari. Indubbiamente, su entrambi i fronti, si agitarono dei meccanismi competitivi.
Alla scomparsa del padre nel 1956, le Sorelle Nurzia denunciarono delle campagne commerciali troppo invasive, da parte del loro fratello, ma si addivenne ad un accordo per la vendita del prodotto, da diversificare nelle rispettive confezioni. Chiuso il contenzioso, mentre Tito comprendeva il mutamento di costume dei favolosi anni ’60, accattivandosi la clientela con campagne pubblicitarie eccentriche, ma non prive del gusto d’antan, Ines cedette la sua quota societaria ad una affermata rete della grande distribuzione commerciale, non solo abruzzese, facente capo alla famiglia aquilana, da una generazione, dei Farroni, un di cui capostipite, Domenico, fu membro benemerito della Cassa di Risparmio dell’Aquila, dal 1859 la più grande intrapresa del capoluogo di regione.
Il risultato di questi rivoluzionamenti dentro una Ditta con più di un secolo alle spalle, alla fine dei tumultuosi ’70, fu il sorgere di una società in nome collettivo tra le mogli dei tre fratelli Farroni, Romana Calisti, Concetta Giuliani, Marina Nocelli ed Ada Nurzia e che all’atto della scomparsa di quest’ultima nel 1979, per volontà dei suoi eredi, si trasformò nella società in accomandita semplice “Ines Nurzia già Sorelle Nurzia”, ottenente premialità su scala mondiale nel 1974, nondimeno, analoghi riconoscimenti andati ai ”Fratelli Nurzia”. Si registrò, negli anni ’80 del benessere sociale diffuso, un aumento della produzione di torroni di cui beneficiarono entrambe i casati recanti il nome Nurzia, tuttavia, il massivo accesso alle grandi catene di distribuzione, come il Gruppo Rinascente, permise alle”Sorelle Nurzia”, un’espansione oltre il tradizionale mercato del Centro Italia, anzi, arrivando Oltreoceano.
Senonché andava in scena la fine della tregua tra le due ditte del torrone aquilano, la di cui comune somiglianza del marchio di classica matrice patiniana e packaging avevano tratto in confusione alcuni forestieri, piuttosto desiderosi di acquistare il prodotto delle “Sorelle”, invece di ritrovarsi in mano quello dei “Fratelli”. Ne derivava l’ordinanza tribunalizia di cessazione dall’uso illegittimo di marchi ed involucri, alla scuderia di Tito che, nel 1985, lasciava in eredità ai figlio superstite Ulisse jr, che a sua volta, cedeva le chiavi del patrimonio aziendale ai giovani rampolli, Natalia e Francesco Saverio jr. Il nuovo corso, mentre la municipalità intitolava una via ad Ulisse Nurzia in quel del polo artigianale di Pile, era più in linea alle trame manageriali dei tempi, nonché con un allargamento del prodotto base, ai sempre più diversificati gusti dei consumatori, specie occasionali, della bottega di piazza del Duomo, risparmiata strutturalmente dall’indicibile terremoto dell’Aquilano, il 6 aprile del 2009, anzi divenendo uno dei simboli della resilienza del capoluogo abruzzese, poiché riaprente i battenti alla festa dell’Immacolata di quell’anno.
Tuttavia, ai fini della messa in antisismicità totale dell’antico stabile, visitato da molti grandi politici della Terra, per il G8 a L’Aquila nel 2009, a poco più di un lustro da quel fatidico frangente, per la prima volta, dopo quasi due secoli, il torrone Nurzia, esce dal suo storico luogo di ideazione, onde accasarsi, certo, temporaneamente, al palazzo dell’ex Standa in corso Federico II. Con lo sviluppo delle moderne forme pubblicitarie, derivanti dalla radiofonia prima, poi dalla televisione, per non dire delle ultime comunicazioni telematiche, la realtà del torrone Nurzia, pur in due rami dialettici commercialmente, via via ha rafforzato la sua posizione nella nicchia di comparto nazionale, forse più in là della realtà omologa in cui si è inserita, anche in ottica di responsabilità sociale d’impresa, con riferimento alla scelta nella catena produttiva di alimenti che non siano impattanti rispetto alle sensibilità ecologiche di varie fasce dei consumatori: si pensi alla ultima versione vegana delle ”Sorelle Nurzia”.
Sulla scìa di questa riconosciuta leadership del torrone “tenero al cioccolato”, localmente e regionalmente, si son registrati più o meno fortunati tentativi di emulazione, ormai, divenendo una consuetudine sempre più radicata, quella di donare alle ricorrenze più importanti, in primis, alle Natalizie, il famoso dolce aquilano, del resto, inserito, su proposta della Regione Abruzzo, nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, nel 2010. Il torrone Nurzia, proiettato sui mercati di risonanza internazionale, eppure mantiene quella tradizione artigianale, originata alle falde del Gran Sasso ed alla base della sua affermazione, e che lustro e visibilità ha conferito dal 1835 all’Aquilano, attraversandone tutte le fasi storiche, nondimeno l’ultima e più difficile sfida, quella della Ricostruzione post-sisma, non disgiungibile da discorsi di valorizzazione identitaria. Ovvero di tutto ciò che è stato il background materiale e morale di un popolo e delle famiglie di cui esso naturalmente, si compone.
Enrico Cavalli
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