Una serie di piccoli fiumi che dalla parte alta Di Piazza Duomo si getta nel Grande fiume: sono le vie che confluiscono, più o meno pacatamente, su Via Fortebraccio, ingrossandola, fino alla strozzatura di Porta Bazzano, che conduce alla Basilica di Collemaggio, ricca di rosoni e trapuntata di merletti bianchi e rosa nella facciata romanica che si riflette sul verde del prato antistante. Sono le vie più note del centro: Via San Flaviano a sinistra, Via Crispomonti al mezzo e Via Cimino a destra. E’ in via Crispomonti, la più lineare delle tre e la più scoscesa che stava, a mezza costa, la casa della mia infanzia, una via talmente stretta che i netturbini di una volta procedevano, nella pulitura, con un colpo alla volta di saggina, a ventaglio, raccogliendo ben poco del resto da mettere nel bidone del carrettino, anche perché assai pochi erano i rifiuti delle case, dove tutto entrava a grammi e a decilitri, avvolto in carta-paglia e in bottiglie portate da casa.
Il mio vicolo, ma fino agli anni sessanta tutti i vicoli dell’Aquila erano uguali, era un micromondo, un condominio che si estendeva in lunghezza e dove il vicinato era il termine sociale più conosciuto e vissuto. Il vicinato era una famiglia. Di più, era la famiglia allargata di una volta. Non esisteva sfera privata e quella pubblica si arrestava soltanto sulla soglia dell’alcova. Quando in tempi di rivoluzione inventarono le “comuni”, in realtà copiarono ciò che da noi esisteva da anni e che il vicinato aveva mutuato dal primo cristianesimo che si era organizzato in comunità nelle quali il patrimonio dei singoli si tramutava in bene comune.
La strada era il salotto di casa. Bastava trascinarsi una sedia sull’uscio per imbastire chiacchiere con le comari mentre gli uomini, tra una scopa e un tressette, consumavano un mezzo toscano che toglievano di bocca solo per sorbire un bicchiere di rosso di cantina. Anche i mestieri si praticavano fuori di bottega, specie nella buona stagione, quando il sole allagava i muri e il selciato ed invogliava al canto. Spasimante, il facchino che caricava i bagagli sul tetto delle corriere, di buon mattino compariva in mezzo alla strada con un catino d’acqua per lavarsi freneticamente la faccia.
La donna con il marito nelle miniere del Belgio si affacciava al balcone per urlare l’ultima lettera giunta da Charleroi. Martellava su un tronco di legno l’anziana popolana, per rompere le mandorle, di cui aveva accanto un sacco pieno, da restituire sbucciate a una ditta di torrone al cioccolato. Le bucce le sarebbero occorse d’inverno per avviare la stufa economica.
Per le donne di casa, il primo pensiero, al mattino, era mettere la pignata dei fagioli e il tegame del sugo sui fornelli, perché ogni cottura giungesse a maturazione per l’ora del pranzo, quando tutti si stava attorno al tavolo perché non esistevano ancora orari continuati negli uffici. A giorni fissi s’udiva il richiamo della donna di paese: “ecco lo riniccio!” tanto al bicchiere come per le “muricole” e per i lupini del lupinaro; o il grido dell’ombrellaro che sostava a lato dell’uscio di casa, per “accomodare piatti, congoline e ombrelli”, perché allora non si buttava nulla, e tutto tornava come nuovo con mastice e punti metallici.
La donna della casa alta, come una volontaria della croce rossa, andava gratis là dov’era chiamata per sconciare il malocchio a chi soffriva di emicrania provocata da maleficio d’amore o da invidia: poche gocce d’olio su un piatto riempito d’acqua e dal loro espandersi si aveva conferma del torto subito, insieme al benessere riconquistato. Una visita improvvisa era capace di mettere in difficoltà una famiglia a corto di provviste. Si rimediava correndo dal vicino per una tazzetta di zucchero o di sale, un po’ di pane magari, immancabilmente restituiti con l’usuale “a buon rendere”, che era garanzia di mutuo soccorso.
A scuola, i ragazzi, anche i più piccoli, andavano da soli, senza genitori che li accompagnassero. I miei primi due anni delle elementari, si svolsero a Palazzo Cidonio, in Via delle Grazie, mentre le ultime tre classi furono alla De Amicis di San Bernardino, antico ospedale fondato da San Giovanni da Capestrano. Due gli ingressi: da Piazza San Bernardino per le femminucce, da piazza del Teatro per i maschietti: una rigorosa separazione che continuava anche nelle classi. Due soli i libri da portare, uno per apprendere le prime nozioni di grammatica ed il sussidiario.
L’ultima mia nipotina ha dovuto presentarsi al primo giorno delle elementari con il trolley. Da soli a scuola, da soli in giro per la città o ai giardini pubblici. Alla Villa noi ragazzi, magari dopo qualche partita a zirè, ci riposavamo con il gioco della corrente elettrica, a fianco al monumento ai Caduti. Avevamo scoperto che tenendoci per mano, se gli estremi toccavano l’uno una panchina di ferro e l’altro un lampione, venivamo colti tutti da un leggero brivido: quanto bastava per un sussulto e una risata. Lo spasso grande erano le feste Patronali, a Santa Giusta o a Porta Bazzano, tra gli infiniti tentativi di raggiungere la cima del palo della cuccagna ricca di prosciutti e salsicce e le corse dei maccheroni, divorati a mani legate dietro la schiena, incuranti delle manciate di peperoncino.
Di pomeriggio, dopo i compiti, saltalamula con colpi feroci sulla schiena (campana per le ragazzine), corse in discesa per lo scapicollo, per vedere chi arrivava in fondo al vicolo per primo. Difficilmente si evitavano cadute e scivoloni e non era insolito rientrare a casa con le palme delle mani e le ginocchia sbucciate. Per riposarci si entrava nel cortile dei Di Pietro per i nostri giochi sedentari: il cucuzzaro, piedi piedella, zizzittu, le belle statuine, finché al calar della sera non arrivava il richiamo delle mamme per la cena. Quando soffiava il vento, giungevano nel vicolo gli odori del mercato della Piazza Grande, o dello zucchero filato se era festa. Ma il vento vero eravamo noi ragazzi, con il nostro fiato che alitava da un capo all’altro tra botteghe e portoni, per gridare la nostra spensieratezza. Che oggi chiameremmo felicità.
Mario Narducci
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