Il muro di casa trasudava fiati nella notte fonda e leggermente ondeggiavano, al ritmo dei respiri lievi e degli ansimi appesantiti dal giorno, i rami dei ciliegi appena rifioriti. Una scala di legno, di quelle contadine, ruvida nelle assi laterali e liscia nei pioli che ne denunciavano l’uso, s’appoggiò, quasi uscita dal nulla, alla finestra della camera bassa, sorretta da una mano delicata. Era l’ora stabilita. Il cielo era nero da mostrare tutte le sue stelle, e la luna si rifletteva sui vetri chiusi nell’aprile inoltrato. Come ad un cenno convenuto la finestra si aprì. Una donna non più giovane si sporse sul davanzale, guardò nei lati e poi in basso dov’era l’amica del cuore, dette un’occhiata rapida e silenziosa all’interno di quella ch’era la sua camera nubilata, raccolse la lunga veste, scavalcò agile il davanzale, mise il piede destro, cautamente, sul primo piolo e gli altri furono guadagnati rapidamente fino al lastricato dov’era ad attenderle un calessino che le portò, nel buio, in una casa di periferia. La finestra era rimasta accostata, la scala appoggiata al muro. Tutto era avvenuto nel silenzio più assoluto: rattenuti i respiri, il terrore che alle orecchie dei dormienti giungesse il battito dei cuori in fuga. Non uno stridio di civetta, non un lamento di gatto in amore.
Doveva esserci stata la stessa atmosfera di ansia e di silenzio, quella notte ad Assisi, quando la giovane e delicata figliuola di Favarone di Offreduccio e di Ortolana, evitando il portone per non insospettire alcuno, attraversò d’un balzo la Porta dei morti con la complicità della fantesca, per raggiungere Francesco e i suoi seguaci alla Porziuncola. Anche quella notte era d’aprile, Domenica della Palme del 1206.
Ma Stella non andava monaca, fuggiva assai più semplicemente per andare a nozze, dopo che ogni tentativo, messo in atto con genitori e fratelli, di giungere al matrimonio per le vie consuete era miseramente naufragato per la ferma opposizione dei suoi. Solo la signorina Lina, un’amica di vecchia data, le teneva bordone ed era, per giunta, una laica monacata che vedeva assai più in là di quanto non giungessero gli occhi della gente di casa, appannati, giustappunto, da mero interesse di bottega.
Quella di Stella era una famiglia benestante, ricca di terre e di mulini. Un podere retto a mezzadria con distese di grano per la collina addolcita e frutteti vari tra i filari di uva che si allungavano a perdita d’occhio. Una catena di mulini, affidata alle cure dei fratelli, chiudeva il cerchio di una intrapresa ammirata e a volte invidiata da molti del paese e d’intorni.
Stella dei mulini era l’anima. Era lei che, nei fatti, gestiva ogni cosa, dal grano che giungeva a quello che veniva restituito dopo la molatura. Ma era anche la donna di fatica che si caricava decine di sacchi sulla schiena, in un giorno, senza batter ciglio. Alta e robusta come una maremmana da pascoli aperti, le bastava un giro di schiena per sistemare ogni cosa e giungere là dove i fratelli, per ignavia, non sarebbero mai arrivati.
“Stella, le ripeteva l’amica monaca man mano che la vedeva maturare, come lei nell’età, Bisogna che incominci a pensare al tuo futuro, a mettere su famiglia, a rispondere allo sguardo innamorato di qualche giovane che intenda fare sul serio”. Stella si schermiva abbassando gli occhi come un’educanda e rispondeva “vedrò”, ma senza convinzione. La convinzione si arenò del tutto, invece, quando lei fece scivolare per la prima volta, nella grande casa comune, davanti al piatto della cena, la possibilità di andare maritata. Fu una levata di scudi. I vecchi a sentenziare che una donna della sua età, con uno zio prete per giunta, non avrebbe mai dovuto coltivare grilli simili per la testa; i fratelli a urlare che se avevano deciso di portare avanti i mulini fu perché s’ eramo messi in cinque tutti insieme e che lei dunque non li poteva lasciare a sedere scoperto.
“Stella, continuò a ripeterle la monaca complice, devi andare per la tua strada, i tuoi fratelli hanno tutti una famiglia, un giorno resterai sola, non puoi continuare ad essere la bestia da soma dei tuoi”. E a Stella quelle parole incominciarono ad essere rovello, tanto più che un giovane vedovo di un paese poco distante, tramite i buoni uffici dei reciproci parroci, che s’erano scambiate lettere mallevatrici, le aveva fatto intendere che l’avrebbe presa volentieri in moglie.
“Stella, insistette ancora la monaca, quando seppe dello spiraglio aperto alla formazione di una famiglia nuova, adesso o mai più”.
E fu quel mai più a convincere definitivamente Stella, che d’accordo con la monaca, per prevenire sospetti ed arginare nuovi rifiuti, di tanto in tanto, a notte fonda, quando tutti dormivano, apriva la finestra per gettare furtivamente, ben avvolta in mantili, parte del corredo tra le braccia dell’amica che andava a stipare il tutto a casa propria.
L’ultima notte, da quella finestra benedetta, finalmente ci passò lei che andò a raggiungere il corredo, perfettamente riordinato e imbaulato, in casa della monaca.
In famiglia le tolsero il saluto, ma fu solo finché non si ripresero dalla nervatura. Al matrimonio c’erano tutti, insieme alla monaca complice. E c’erano tutti i contadini che l’avevano caricata di fatica con i loro sacchi di grano e di farina che la imbiancavano tutta, fino a renderla irriconoscibile. Quando apparve al braccio dello sposo, dopo la cerimonia, Stella era bellissima. Non per filo di trucco né per belletto di sorta sulle guance arrossite. Ma per quegli occhi grandi che parlavano da soli anche nel silenzio più assoluto, e per quel sorriso discreto e chiaro, che le fioriva tra le labbra, sotto il velo di tulle, mentre la campanuccia della Pieve si distendeva a festa sopra i cascinali.
Mario Narducci
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