“Ieri sera, nella trasmissione televisiva ‘Non e’ l’Arena’, si e’ tentato di far intendere che la mancata nomina, due anni fa, del dottor Nino Di Matteo, magistrato antimafia e attuale membro del Csm, quale Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) fosse dipesa da alcune esternazioni in carcere di mafiosi detenuti che temevano la sua nomina. L’idea trapelata nel vergognoso dibattito di oggi, secondo cui mi sarei lasciato condizionare dalle parole pronunciate in carcere da qualche boss mafioso e’ un’ipotesi tanto infamante quanto infondata e assurda”. Lo scrive su Facebook il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “E’ sufficiente infatti ricordare- spiega- che, quando decisi di contattare il Dott. Di Matteo, quelle esternazioni di detenuti mafiosi in carcere erano gia’ presso il mio Ministero da qualche giorno. Non solo. Furono oggetto di specifica conversazione in occasione della prima telefonata con cui, il 18 giugno 2018, proposi al dottor Di Matteo, in piena consapevolezza di cio’ che questo rappresentava, di valutare la possibilita’ di entrare nella squadra che stavo costruendo per il ministero della Giustizia. D’altronde, se mi fossi lasciato influenzare dalle reazioni dei mafiosi non avrei certo chiamato io il dott. Di Matteo per valutare con lui la possibilita’ di collaborare in una posizione di rilievo”. Bonafede continua: “Sono consapevole che le mie scelte e le mie decisioni possono piacere o meno ma rigetto ogni e qualsiasi illazione al riguardo”.
Alfonso Bonafede, nel suo post su Facebook racconta che con Di Matteo “parlammo del Dap o di un ruolo in qualche modo equivalente a quello che era stato di Giovanni Falcone (che avrebbe richiesto piu’ tempo). Il giorno dopo, vale a dire il 19 giugno 2018, dissi all’incontro con il Dott. Di Matteo (il quale era orientato per il DAP) che ritenevo che questa seconda opzione fosse la migliore e la piu’ adatta. La mia valutazione era molto chiara: l’arrivo di Di Matteo avrebbe rappresentato un segnale chiaro e inequivocabile alla criminalita’ organizzata. Alla fine dell’incontro, mi sembrava che fossimo concordi sulla scelta di quella collocazione, che gli avrebbe consentito di incidere su tutta la legislazione in materia penale. Ad ogni modo, ci lasciammo con questa prospettiva”. Piu’ tardi, continua il racconto del ministro della Giustizia, “ricevetti una chiamata del dottor Di Matteo, il quale mi chiese un secondo incontro, che si svolse l’indomani (mercoledi’ 20 giugno 2018, ore 11:00). In quell’occasione mi disse che avrebbe preferito il Dap. Con profondo rammarico, gli spiegai che, dopo l’incontro del giorno prima, avevo gia’ assegnato quell’incarico a un altro magistrato. Ricordo perfettamente che gli dissi che sarebbe stato comunque ‘la punta di diamante del Ministero contro la mafia’. Lui ribadi’ legittimamente la sua scelta. Ci siamo salutati entrambi con rammarico per non aver concretizzato una collaborazione insieme”. Il guardasigilli conclude: “Questi sono i fatti. Ho sempre agito a viso aperto nella lotta alle mafie che, infatti, nel mio ruolo ho portato avanti con riforme come quella che ho sostenuto in Parlamento sul voto di scambio politico-mafioso; con la Legge c.d. “Spazzacorrotti”; con la mia firma su circa 686 provvedimenti di cui al 41 bis e con l’ultimo decreto legge che, dopo le scarcerazioni di alcuni boss, impone ai Tribunali di Sorveglianza di consultare la Direzione nazionale e le Direzioni distrettuali antimafia su ogni richiesta di scarcerazione per motivi di salute di esponenti della criminalita’ organizzata. Ci tengo a chiarire che con questo post non voglio alimentare alcun tipo di polemica: si tratta di precisazioni importanti nel rispetto dei ruoli”.
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