L’autunno, nella Valle del Metauro, si tinge delle mille tonalità delle foglie dei boschi, folte che paiono togliere il respiro, digradanti nei fossi impenetrabili, senza fine lungo le erte che s’arrampicano fino a toccare la luce al tenue sole di stagione. L’autunno, nella Valle, esala profumi inconfondibili: dalle case quando la sera indulge sulle tavole contadine, o dalle trattorie che già dai comignoli spirano fumi d’arrosti mentre ribolliscono i mosti nelle cantine. Valle dei colori e Valle dei profumi. E se la fortuna là ti conduce nel bel mezzo della “fioritura” del tartufo bianco, colori e sapori si mescolano fino a stordirti l’animo, come m’avvenne in una delle tante cantine del centro storico di Sant’Angelo in Vado l’ottobre di qualche anno fa, quando scoprii l’allucinante tubero rasposo e terragno, sulla tagliatella fumante e sulla frittata appena tolta di padella.
Montanaro come quelli della Valle del Metauro che, quasi seguendo il fiume, s’inerpicano, fino al passo di Bocca Trabaria, io conoscevo solo il tartufo nero della Valle Subequana del mio Abruzzo Aquilano, ruvido come il carattere della mia gente e nero come l’umore della loro dignità, se offesa.
Immaginate, allora, come mi restò facile sentirmi a casa, pure a 300 chilometri di distanza, nella cantina dall’odore penetrante del tubero che si mescolava alla freschezza aromatica del Bianchello che prende, anch’esso, il nome dal bel fiume.
Era il tempo dell’ annuale Fiera, e per due giorni vagai di cantina in cantina dopo le soste d’obbligo ai banchi della Fiera.
E allora m’accadde qualcosa di irrepetibile. “Lei è un incosciente”, mi redarguì una voce mentre dal banco degli acquisti. in Piazza del Municipio, andavo verso il parcheggio per tornare a casa. Il mio stupore si stemperò nel sorriso di un Milite dell’Arma che ripeté, senza apparirne convinto: “lei è un incosciente, un istigatore alla rapina. Non deve andare in giro con quel tesoro fra le mani”. Andate a Sant’Angelo in Vado, se potete, e andateci di quei tempi, quando l’odore del tartufo bianco si mescola agli effluvi del Bianchello e alle “fave dei morti”, una sorta di amaretti simili a quelli che ancora fanno in casa le nonne del mio paese.
L’occasione della Fiera del tartufo bianco, tornerà utile per visitare luoghi d’incanto, scorci di storia stampati tra le pietre degli antichi palazzi, botteghe artigiane che affondano la memoria nella lavorazione del ferro battuto e delle pelli, degli intagli lignei e dell’oreficeria, templi della cultura e dell’arte come Palazzo della Ragione con “el campanon”, “La Gavina” dei Ganganelli -il casato di Papa Clemente XIV- e la Chiesa dei Servi, dove stanno, stupende, le tele di Raffaellino Del Colle (Sacra Conversazione) e Santi di Tito (Natività del Battista) o, al di là del fiume, “Il Palazzetto” voluto nel 1538 dal Conte della Motola, stando a una lapide dedicata al Duca di Urbino Francesco Maria I della Rovere.
Conobbi questa Valle per amore e adesso l’amo per il gioiello che è. Ma anche per i legami che ha con la mia terra, a partire da Celestino del Morrone, eremita, Papa per tre mesi e Santo, che seminò per questi luoghi i suoi monasteri celestini fino a quello di Urbino, dove oggi sta il nucleo originale dell’ateneo che fu di Carlo Bo.
E i colori, gli odori e i sapori di questi luoghi, dovettero esser graditi all’altro mio conterraneo Serafino de’ Ciminelli, il Serafino Aquilano, chiamato da Guidubaldo, intorno al 1494, alla Corte dei Montefeltro, per allietare con i suoi strambotti la duchessa Elisabetta e la contessa Emilia Pia, che inebriate dalle sue rime, quasi in deliquio, giungevano a togliersi di dosso, per donarli all’Aedo, gli ori e le collane che ne abbellivano le bianche carni. Erano trascorsi cinquant’anni, da che l’antica Tiferno Metaurense, (poi Sant’Angelo in Vado) era entrata a far parte del Ducato di Urbino, in seguito al matrimonio di Gentile Brancaleoni con Federico da Montefeltro.
Anch’io, mutatis mutandis, ho avuto in moglie una santangiolese. Che m’ha portato in dote le belle mani e l’antica sapienza delle sue ave, con le quali, nelle solennità dell’anno, confezionava “caplett” e “passatini”, la “crescia sal formag” immancabilmente a Pasqua, e il “bostrengo” che sa d’aranci e mandarini, ma anche di noci e uva passita mischiati col cioccolato al pane raffermo. Lungo il corso centrale, dove s’aprono le bancherelle dei tartufai, a venti metri dal Campanon, mio suocero gestiva una bottega di “cocci”, luogo d’amicizia vera prima ancora che di acquisti poverelli. A vederla in mano altrui, oggi, mi si stringe il cuore. Ma subito si riallarga quando l’odore penetrante del tubero lo raggiunge e lo inebria. Magia infinita dei boschi, favola senza fine che t’accompagna un anno intero: il tempo che corre tra una fiera e l’altra. Il tempo di un sospiro, se a scandirlo è il tartufo bianco di questo paradiso verde.
Mario Narducci
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