Fu da allora che il gambo dei fiori gli era diventato un chiodo fisso. Le rose soprattutto, rosse come porpora e vellutate a passarci le dita come una carezza sulle labbra; le tea dalle cento sfumature che illanguidiscono verso il bianco; le gialle, le bianche come quelle nate a coprire la roccia del suo giardino, che richiedono cautela al tatto per le molte spine. Fosse una ragazza a passare tra i tavolinetti dei ristoranti dove gli capitava di cenare a volte nelle sere d’estate, con sua moglie, o fosse un ragazzo di colore, lui la prima cosa che faceva era quella di guardare il gambo. Le rose erano la sua passione e ne faceva omaggio volentieri alla bellezza di una donna. Non gli bastava che sul tavolo tremolasse la candela aromatica nel bicchierino chiaro. Nè gli bastava il vasetto risicato che gli facevano trovare sul tavolinetto, magari con fiori finti. Finchè sulla tovaglia non si posava una bella rosa rossa era come se si sentisse a disagio. A volte doveva vincere la ritrosia della signora, i suoi reiterati “non occorre” alitati appena con suadenza, ma venati di desiderio. Le sere d’estate, a Piazza Navona, sono cariche di complicità. Non c’è altro luogo che le tenga testa. Le mille luci dentro l’agone sanno di festa discreta e ammaliatrice. Lo scroscio delle tre fontane accompagna i sentimenti e li lievita. E poi i pittori di strada, pronti per un ritratto o una caricatura che, i turisti soprattutto, riportano a casa insieme ai souvenirs di San Pietro, del Colosseo e della Lupa con i due poppanti che hanno fatto la storia della città. A Piazza Navona l’avverti tutta la magia del tempo e della quiete. E’ come entrare in uno spazio unico e restarci senza assilli. Sentirsi appagati è la voglia che aleggia dappertutto, dai terrazzi alti della buona borghesia alla Chiesa di Sant’Agnese in Agone fino all’Ambasciata di Spagna dal portone rigorosamente chiuso quando si apre la vita notturna. Ma a volte basta una rosa rossa a fare la differenza. Mario conosceva quei posti come le stanze di casa, al Nomentano. Sulla Piazza s’affacciava un unico balcone ed era della redazione interni in cui lavorava come giornalista. Da quel balcone osservava la vita della piazza ammaliatrice e tornava anche ragazzo con i suoi colleghi quando sotto le feste di Natale fiorivano le bancherelle di castagnaccio, giocattoli e presepi e andavano gli ambulanti con i palloncini colorati che dal balcone facevano esplodere a colpi di pistola a pallino, tra le risate più grasse quando il malcapitato puntava il cielo per sapere da dove venissero quei tiri mancini. Ai tavolinetti dei ristoranti di Piazza Navona, la fioraia passava puntualmente a sera fatta, quando l’atmosfera prendeva la via della complicità. Era una donna anziana alta e corpulenta, che tradiva dal volto, prima ancora che dalla parola, la sua condizione di profuga istriana. Le sue rose le teneva in un cesto appeso all’incavo del braccio sinistro. Aveva capelli grigi radunati a crocchia sulla nuca, occhi dolci e chiari, e sulle spalle uno scialle colorato che le calava oltre le ginocchia sulla lunga veste gonfia d’antico. Più che parole bisbigliava suoni lievi che accompagnavano la rosa rossa dal cesto al tavolo. Pochi spiccioli, un inchino fatto di sorriso riconoscente, e passava all’altro tavolo, spostandosi da un ristorante all’altro fino a rose esaurite. Solo allora spariva in uno dei vicoli abbuiati che attorniavano la Navona, per ricomparire la sera successiva, con il suo carico di rose e di cortesia grata. A Mario piaceva assai quella presenza gentile che andava oltre la bellezza sfiorita ma ancora leggibile, come miniatura su pergamena rara. Guardasse dal balcone, passeggiasse lungo l’anello della piazza, la prima cosa che cercava era la vecchia fioraia e solo quando la scorgeva, tra i tavoli dei ristoranti, avvertiva come un senso di sollievo profondo. Avrebbe notato sicuramente di meno l’assenza di una delle tre fontane. E quando tornava a sedersi con Mariolina ad uno di quei tavoli, incominciava a guardarsi intorno, ansioso di scorgerla, perché la serata non sarebbe stata completa senza una sua rosa rossa da donare come cavaliere antico alla sua donna, ritrosa sempre con i suoi reiterati “non ce n’è bisogno”, ma felice per quel fiore da portare a casa a fine sera, per conservarlo nel vasetto alto e stretto di cristallo che viveva solo tra una rosa e l’altra assorbendone la bellezza e il profumo.
Era settembre quando, pure con le ancora calde serate, la fioraia non si vide più. Dal balcone del giornale Mario cercava di scorgerla, ma inutilmente. E quando tra una edizione e l’altra del quotidiano scendeva a Piazza Navona per due passi, anche allora le ricerche furono inutili. E fu inutile l’attesa quando tornò ancora una volta al tavolinetto del ristorante, e nessuna rosa si posò sulla tovaglia bianca perché concludesse la serata nel vasetto di cristallo che rimase nudo. Finché la notizia non prese a circolare. “Ha saputo, dottore, della vecchia fioraia? -gli disse una sera il proprietario del locale dov’era tornato a cena con Mariolina – E’ stata diffidata dalla Questura perché i fiori che vendeva ai tavoli andava a rubarli al cimitero”. Per Mario fu una illuminazione improvvisa. Ecco perché, si disse dandosi una palmata in fronte, i gambi di quelle rose erano troppo corti rispetto a quelle che acquistava nel negozio di fiori accanto a casa. Ma dopo una prima reazione di sdegno, subito rientrò in se stesso per argomentare che sì, quello della fioraia non era stato un bel gesto, ma che tuttavia i morti non se l’erano avuta davvero a male se i fiori che dovevano inaridire sulle loro tombe erano serviti a dare di che vivere a una povera profuga istriana. Ma il rovello nessuno riuscì mai a levarglielo. Per cui da quel giorno, ogni volta che si trovava con Mariolina o in cene tra amici e passava un fioraio, la prima cosa che faceva, prima di acquistare una rosa, era quella di guardare il gambo. Se era lungo la prendeva. Se era corto rifiutava gentilmente, accompagnando il gesto con un “Requem aeternam” indirizzato all’anima del defunto depredato.
Mario Narducci
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