Il mondo era la nostra canzone. La voce spiegata, potente di Jimmy Fontana aveva il potere di trasportarci dove il nulla si mutava in vita. Le note altissime toccavano il soffitto a volta della casa di Via Garibaldi, il primo portone a sinistra, e ci ripiovevano addosso con leggiadria, nella consapevolezza che tutto potesse accadere, perfino che la bambina tredicenne si alzasse dal letto e prendesse a camminare, perché il cuore s’era ricomposto e gli atri non comunicavano più tra di loro mischiando il sangue e impedendole di respirare e camminare.
Ma lei non si alzava, continuava a stare seduta nel suo letto del poco fiato e sembrava una regina di quelle di antiche tribù lontane e di favola, che governavano distese, attorniate da cortigiani e visitatori. Ma a differenza di quelle aveva sempre il sorriso sulle labbra bluastre, e gli occhi riderelli come quelli di tutti i ragazzi della sua età, anche se doveva limitare i movimenti all’essenziale, senza poterli rincorrere nel cortile o nella vicina piazzetta di Santa Maria Paganica.
Mariolina ed io eravamo tra gli assidui al suo capezzale. Ci eravamo conosciuti a Lourdes nell’agosto del 1965. Pellegrina tra i malati barellati lei, che si recava al Santuario sperando in un miracolo, tra personale volontario noi (Mariolina Dama, giunta lì con il treno bianco delle Marche, ed io scout brancardier, approdato nella cittadella dei miracoli con il treno bianco abruzzese). Quando la conoscemmo lei era già in una corsia dell’Asile, l’ospedale che si apriva sull’immensa explanade delle processioni eucaristiche pomeridiane e aux flambeaux a sera calata, e sulla facciata gugliata della grande Basilica che guarda la linea delle fontanelle dell’acqua di Bernadette e le piscine rigeneranti della Siloe di Francia.
Al suo fianco, in un lettino bianco come il suo, stava una bambina minuta di Pacentro, in provincia dell’Aquila, che non aveva mai poggiato i piedi per terra, ché non l’avrebbero retta. Memena era più grandicella della pacentrina. Ma bastò un’occhiata tra le due perché si intendessero a vita. Cos’hai? Le chiese Memena in un filo di fiato. Non posso camminare, le rispose Giuseppina, non ho mai camminato. Allora io sto meglio di te, fece di rimando la ragazza dal sangue mischiato e senza che nessuno stesse a suggerirglielo, da lì in poi non disse nemmeno più un’Ave per la propria guarigione, ma Rosari interi per la pacentrina che ci pensava lei a pregare per l’altra, in una gara di generosità che faceva sciogliere in lacrime di commozione gli angeli del cielo. Mariolina la conobbi davanti a quella distesa di lettini bianchi dell’Asile, una notte che eravamo di guardia e che ci ritrovammo a fianco dei lettini di Memena e Giuseppina. Memena ci guardava con gli occhi riderelli come se già avesse capito tutto prima di noi che non sapevamo ancora che ci saremmo innamorati.
La storia di Memena è nel suo diario, custodito gelosamente dal Fratello Orlando Cetrullo. La sua famiglia si stabilì all’Aquila proveniente da Pescara, dove Memena era nata nel 1952. Una ragazza come tante, allegra, studiosa, curiosa della vita, fino a quella sera matrigna che a otto anni le sconvolse i giorni per sempre. Il diario, preciso, racconta ogni cosa. Il ritorno da scuola, la febbre alta che la colse improvvisa con un mal di testa orribile, il medico e la prima diagnosi ospedaliera: “comunicazione atriale con ipertensione polmonare”. La visita a Torino dal luminare Pofessor Dogliotti, che conferma la diagnosi non lasciando speranza alcuna ai genitori, ché la scienza chirurgica, allora, non consentiva ancora interventi riparatoririparatori di quel genere. Memena però comprende ogni cosa e sul diario silenzioso scrive: “Non voglio morire, voglio giocare, correre, voglio il sole”. Il poco sole che vedrà, da quel momento, sarà quello che passerà tra i vetri della finestra della sua stanza e poi quello di Lourdes, radioso come la grande particola eucaristica delle processioni. Capace di mutare i patimenti in gioia. A Lourdes Memena, per fioretto, dimentica di proposito di prendere le medicine per il suo cuoricino che già da solo non sarebbe arrivato lontano. Lo fa per la Pacentrina nella speranza di vederla camminare. Ma le due bimbe non avranno miracolo alcuno. Anche se come ogni anno vi saranno guarigioni riconosciute e segrete, sopratutto quelle dell’anima. Intanto la riderella su me e Mariolina aveva visto giusto. E quando la Dama, finito il turno, tornò in albergo, io non la lasciai andare sola nella notte. Sulla viuzza che attraversavamo c’era un bar aperto e fu lei a fare la prima mossa, mai riconosciuta quando da sposati gliela ricordavo e lei arrossiva ancora: mi offri un tè? Che cosa è un tè? Meno di un cioccolatino ma fu il più dolce preso mai. Non era nemmeno un apostrofo rosa tra le parole di amo, ma più semplicemente era l’amore che schiariva i vetri perché la luce entrasse tutta e non ci lasciasse più.
Tornammo da Memena insieme, nella stanzetta ch’era il suo salotto, il giorno che Mariolina venne all’Aquila per ricambiare la visita ai miei genitori. Ci eravamo già scambiati gli anelli di fidanzamento, ma senza ufficialità. E ricordo che quando portai i miei genitori a conoscere i suoi, attraversando il Passo delle Capannelle per arrivare sulla litoranea che ci avrebbe condotti a Urbino, non esitai a tornare indietro per infilarmi al dito l’anello che avevo dimenticato. Diana, sua madre, ci accolse sollecita e affabile, pur stretta nel suo sempiterno dolore. Quando Memena ci vide insieme, gli occhi le si fecero furbi e le labbra bluastre sorridenti come a dire: io lo sapevo. Un anno dopo, il primo settembre, eravamo già marito e moglie. Continuammo a frequentarla assiduamente. Con noi c’erano Padre Andrea il Cappuccino e il responsabile abruzzese dei Foulard Blanche, Giovanni Santucci con i quali eravamo stati a Lourdes. Poi Mariolina restò incinta e un mese prima della nascita si recò ad Urbino per stare accanto a sua madre. Memena se ne tornò al cielo il 27 aprile del 1967. Il 23 maggio successivo nasceva Marialaura. Ma prima di lasciarci, Memena volle donarci il disco che ci faceva sentire nella sua stanza del lieto patire: Il Mondo di Jmmy Fontana. Quello che non si è fermato mai un momento, che la notte insegue sempre il giorno, ed il giorno verrà. E che per lei era una profezia. Fu il suo regalo di nozze. Il regalo di nozze della santarella dal sangue mischiato che sul diario scriveva: Sono davanti alla Grotta ed è inverosimile, non posso fare a meno di piangere. E ancora: Non c’è nulla di più bello al mondo, che addormentarsi con il nome di Maria sulle labbra.
Mario Narducci
Lascia un commento