“Una ragazza ha cominciato ad avere attacchi di panico e non riusciva a dormire di notte”. Diversi compagni erano “piuttosto nervosi, se non tristi”, o addirittura “arrabbiati”. “È stato terribile, dopo tanti mesi senza aver visto professori e professoresse, senza aver dovuto fare un’interrogazione orale, ero li’ con sei materie da dover preparare tutte insieme”. Raccontano cosi’ la conversione forzata alla didattica a distanza 5 studenti italiani tra i 10 e i 18 anni. Le loro voci rientrano nello studio ‘What did we learn from schooling practices during the COVID-19 lockdown?’, recentemente pubblicato dall’Eu Science Hub, il centro di ricerca della Commissione europea. Dall’Italia alla Polonia passando per il Belgio, la ricerca ha infatti analizzato il sistema scolastico di cinque paesi dell’Unione Europea durante il primo lockdown del 2020, a partire da alcuni temi centrali: le diseguaglianze, gli strumenti dell’insegnamento, le competenze, le modalita’ di valutazione e, infine, la salute mentale. Nel caso dell’Italia, al centro dello studio firmato dalla professoressa Maria Ranieri, ci sono 5 studenti, 5 genitori, 13 insegnanti e 6 dirigenti scolastici con un’etichetta comune che sembra metter d’accordo tutte le categorie coinvolte: lo stress. Per gli studenti, fin da subito, il ruolo dei genitori emerge come “fondamentale, sia in senso positivo che negativo”. Lo studente piu’ piccolo, di soli 10 anni, parla ad esempio di un “aiuto diretto da parte della madre e della nonna in caso di difficolta’ tecniche con il computer o la connessione”. E finche’ non ci si addentra nel pieno del liceo, il ruolo genitoriale si conferma di “supporto”, tanto dal punto di vista “dei compiti” che “dal punto di vista psicologico ed emotivo”.
Dai 15 ai 18 anni, invece, in piena adolescenza la situazione si ribalta: i ragazzi e le ragazze intervistate riportano di “non aver mai chiesto aiuto ai genitori, ne’ per lo studio ne’ sotto il profilo psicologico”. Una sedicenne taglia corto e bolla l’intervento e il supporto dei genitori come “sporadico”, mentre arrivando alla maggior eta’, seppur non si intende piu’ chiedere aiuto per compiti e studio, uno studente dichiara di aver ricevuto un “importante sostegno psicologico ed emotivo in famiglia”. Caso a se’, poi, quello dei ragazzi “piu’ vulnerabili o con bisogni specifici”. Bisogna considerare “che la maggior parte dei bambini o ragazzi con disabilita’- illustra un insegnante- non e’ in grado di utilizzare il computer in modo autonomo. Cio’ implica che i genitori devono essere sempre presenti. Per gli studenti con disabilita’, quindi, quest’esperienza e’ stata devastante. Nonostante le molte parole spese sull’accessibilita’, non c’e’ alcun impegno per un’inclusione” vera e propria “da remoto”. A emergere tra i diversi quadri c’e’, pero’, anche quello dei ragazzi con dislessia che, fa notare una dirigente, “sono migliorati perche’ potevano gestire le cose con maggior padronanza, non sentendo la competizione che di solito sperimentano in classe”. C’e’ dunque l’altro lato della medaglia: per alcuni studenti vulnerabili, la didattica a distanza “e’ stata un’opportunita’ di partecipare tra le mura della propria casa, sentendosi cosi’ piu’ sicuri”. Per insegnanti e dirigenti il problema principale, poi, e’ stata l’iniziale assenza “di linee guida centralizzate per l’insegnamento a distanza- osserva la ricercatrice- Motivo per cui la singola dirigenza scolastica, il livello di expertise con il digitale e il coinvolgimento o meno in una rete scolastica” adeguatamente funzionante, “hanno svolto un ruolo cruciale”.
Alcune scuole, spiega un docente, sono divenute “in una situazione di disorientamento, punti di riferimento per altre”. I dirigenti sottolineano: “Indubbiamente ci e’ voluto un grande sforzo, piu’ del solito. In primis perche’ era una situazione nuova e inaspettata, e poi perche'”, al contempo, “abbiamo affrontato una vita stravolta e abbiamo dovuto fare i conti per trovare un equilibrio tra l’ambito professionale, totalmente diverso, e quello privato”. Tra i fattori di stress, infatti, si legge “la paura di non essere in grado di affrontare la situazione”, il bisogno di “garantire una comunicazione efficace, la crescita delle responsabilita’ e la pressione nel dover nascondere- riporta il report- le proprie preoccupazioni agli insegnanti”. Grande anche la complessita’ “nel gestire tutti quei professori che non erano ben predisposti a insegnare online”, in aggiunta all’inquietudine legata ai “possibili rischi che un eccessivo uso del digitale avrebbe potuto provocare ai ragazzi”. Non a caso un insegnante riporta “un caso di burnout” e un’altra ammette di aver avuto diverse crisi: “Mai davanti agli studenti, ma sicuramente loro lo hanno percepito. Mi sono sentita come una foglia che si stacca dall’albero e muore. La caducita’, la fragilita’, l’impossibilita’ del non poter pianificare alcunche’. Sono una persona abituata a pianificare tutto”. Dallo studio emerge dunque “un crescente stress anche per gli insegnanti”, aggravato senza dubbio dalla “mancanza di competenze digitali”, che a sua volta ha generato una mole di lavoro incredibile: “Quando non sai come fare determinate cose, devi semplicemente lavorare di piu’ per capire come poterle fare”. Senza dimenticare il disagio provato da “quei colleghi” costretti “a fare lezione ai bambini con i genitori vicini”, in ascolto. Il fattore ‘giudizio di attori esterni’ per alcuni insegnanti “e’ stato davvero devastante”.
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