Il Covid è invisibile. Anzi, lo si vede solo per le restrizioni all’import alla frontiera. Mascherine se ne vedono poche. Di vaccini nessuno, perché le scorte sono finite. E il nodo è sempre lo stesso: la pace, che resta a rischio. È il Sud Sudan raccontato all’agenzia Dire da Koang Pal Chang, voce di Eye Radio e presidente del Forum nazionale dei giornalisti. È di questa settimana la notizia che, finite le scorte di Astrazeneca arrivate grazie alle Nazioni Unite, le inoculazioni contro il nuovo coronavirus si sono fermate. Chiusi i tre centri vaccinali ancora funzionanti, tutti nella capitale Juba. A marzo il governo aveva ricevuto 132mila dosi ma poi, a causa delle difficoltà della campagna e dell’avvicinarsi delle date di scadenza, la maggior parte delle fiale era stata trasferita nel vicino Kenya. Secondo il ministero della Sanità, a oggi sono state vaccinate solo 50mila persone con la prima dose e 4mila con entrambe quelle necessarie. Una piccola minoranza in un Paese di dieci milioni di abitanti, peraltro in buona parte sfollati a causa del conflitto civile deflagrato due anni dopo la proclamazione d’indipendenza dal Sudan del 9 luglio 2011. Secondo uno studio pubblicato nel 2018, le vittime dirette e indirette della guerra sarebbero state quasi 400mila. Le persone bisognose di assistenza umanitaria restano invece milioni, circa l’83 per cento della popolazione. Pal Chang parla pochi giorni dopo l’anniversario dell’indipendenza. Non di celebrazioni né di grandi progetti ma di problemi quotidiani e preoccupazioni anche a breve termine. “Il governo di recente ha allentato le restrizioni anti-Covid e la gente si ricorda del virus solo a causa del blocco degli approvvigionamenti alla frontiera” sottolinea il giornalista. “A preoccupare sono la mancanza di cibo e di sicurezza”.
Salva Kiir e Riek Machar restano presidente e vicepresidente nonostante siano tra i responsabili del conflitto combattuto tra il 2013 e il 2018. Una lotta per il potere che ha finito per mettere le une contro le altre alcune delle oltre 60 comunità del Sud Sudan, a partire da quelle maggioritarie, i dinka di Kiir e i nuer di Machar. Gli accordi di pace, mediati dall’Unione Africana, hanno favorito un tentativo di normalità senza però risolvere le tensioni. “I sud-sudanesi continuano a fare i conti con l’insicurezza, la violenza, la mancanza di cibo e sistemi scolastici e sanitari in crisi permanente” dice Pal Chang. Convinto che tra mille difficoltà resti però la speranza che la pace sia consolidata. “E’ la nostra sfida maggiore” dice: “I firmatari dell’accordo sembrano non avere la volontà politica di rispettarlo e questo sta frustrando gli sforzi profusi dalla comunità internazionale, dall’Unione Africana, dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo e dai Paesi vicini”. A garantire pace e sviluppo non sono bastati i pozzi di petrolio, dei quali il Sud Sudan è ricco, posta in palio durante il conflitto con il governo di Khartoum combattuto tra il 1983 e il 2005, prima del referendum e dell’indipendenza. Secondo Pal Chang, il problema è la classe politica, nata e cresciuta con la guerra. “La comunità internazionale deve esercitare maggiore pressione perché i nostri dirigenti si impegnino per la pace” dice il giornalista. “Altrimenti qui non cambierà mai nulla”.
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