Sinisa Mihajlovic ha smesso di essere Sinisa Mihajlovic nel momento stesso in cui scelse una conferenza stampa per annunciare la leucemia. Pur restando incontestabilmente lui – la sua impronta sulla terra, pesantissima – infilò un filtro, una patina, tra se stesso e la sua narrazione. Mihajlovic divenne buono. Cattivo ma buono. Una discordanza aderente al personaggio, molto più della melassa postuma, solitamente riservata a chi se n’è già andato. Una misura diluente. Sinisa Mihajlovic, l’uomo più che il campione e l’allenatore, ha invece fatto di tutto per ribaltare la retorica della pietà che lo ha attorcigliato da quando s’è ammalato. Ha giocato a fare il cattivo, ancora di più se si ostinavano a raccontarlo buono. E più lo “perdonavano”, più lui si affilava. “E quell’infame sorrise”, come Franti nel Libro Cuore. Ma no, non sorrideva sempre. E non salutava sempre. Le formule del ricordo ricompongono i pezzi rotti, servono a quello. Anche quando non ce n’è bisogno. C’è un sacco di gente che censura le proprie malattie. Altri si nascondono dietro i malanni. Perché diventano un pregiudizio, un’arma o uno scudo. Lui ha attaccato e s’è difeso, finendo travolto suo malgrado dalla pelosa gonfiezza della “battaglia da vincere”, del “guerriero contro il male”, che pure alimentava in prima persona. Una letteratura supereroistica di esseri umani capaci di combattere il cancro con la tigna. “Ha vinto”, si dice spesso di chi è guarito. Offendendo di rimbalzo chi “ha perso”, come se la malattia fosse un avversario per agonisti della vita.
Mihajlovic si è lasciato riprendere tutto d’un pezzo, con la coppola e il ciondolo, l’estetica da allenatore di pugili un po’ suonato, un Mickey di Rocky Balboa. Perché è rimasto fedele alle sue variazioni di carattere e d’umore. E alla sua evoluzione: la mai smentita partigianeria misogina e fascistoide infine addolcita dalla maturità. Una parte del mondo l’aveva nel frattempo “salvato” dal suo passato. Un indulto non richiesto. Gli aveva cancellato dalla fedina mediatica l’onore alla tigre Arkan, la rilettura dei genocidi, le aderenze ideologiche con la curva della Lazio. L’altra parte, ostinata, lo rivoleva generoso, fiero e ruvido, insofferente, scortese e sgarbato. Se c’è uno cui gli altarini facevano schifo, era Mihajlovic. Non è riuscito a tirarsi fuori dal tranello. Dal momento dell’annuncio ha solo potuto osservare la mutazione di prospettiva. Una volta nazionalista amico dei criminali di guerra, un’altra Garrone. La malattia – ma più che altro la confessione impudica dell’essere malato – ha disinnescato un’immagine che s’era creato ad arte, rifilandone gli spigoli come un arrotino. Il popolo smanioso della altrui repellenza si sfama degli scoppi d’ira, del politicamente scorretto, dei commenti trucidi. Gliene ha forniti finché ha potuto.
A Mihajlovic è sempre piaciuto parlare di se stesso, delle sue idee, delle sue radici. Di quelle soprattutto. Ha celebrato la sua stessa aneddotica, la sua storia di figlio di madre croata e padre serbo, la famiglia dispersa ai primi accenni di guerra. E’ stato lui a raccontare di quella partita – la finale della Coppa di Jugoslavia tra Hajduk Spalato e la sua Stella Rossa – in cui si ritrova faccia a faccia con Igor Stimac, difensore croato dell’Hajduk, che per provocarlo gli dice: “Prego Dio che i nostri uccidano tutta la tua famiglia a Borovo”. “Avrei potuto ammazzarlo a morsi”, disse qualche anno dopo. Grazie all’intercessione di Arkan la famiglia di Mihajlovic fu portata in salvo, da Borovo a Belgrado. E lui gliene renderà merito. Quando Mihajlovic arriva sulla panchina della Fiorentina, Adriano Sofri scrive su Repubblica: “Arkan era stato il capo degli ultras della Stella Rossa, quando era ancora un feroce delinquente comune, e prima di diventare un capo di massacratori, stupratori, torturatori, kapò e saccheggiatori di migliaia di civili innocenti. Mihajlovic era amico di Arkan, e si dice fiero di non rinnegare gli amici: ma c’è una differenza fra rinnegare un’amicizia e ripetere ancora oggi che ‘Arkan è stato un eroe del popolo serbo’. Dice Mihajlovic: ‘Siamo un popolo orgoglioso. Siamo tutti serbi. Preferisco combattere per un mio connazionale’. La frase dell’orgoglioso Mihajlovic somiglia a quella che avrebbe potuto dire un tedesco al tempo di Hitler: ‘Siamo un popolo orgoglioso. Siamo tutti tedeschi. Preferisco combattere per un mio connazionale’. La dissero in tantissimi, pochissimi invece se ne vergognarono. Quei pochissimi riscattarono l’umanità”.
A malattia sopraggiunta è scattato il riscatto in contumacia, hanno ritrattato altri al posto suo. Per percezione: le lacrime, il racconto della resistenza, la squadra che gli si stringe attorno. Tutti i “tropi” di un copione salvifico che ha di fatto superato gli errori del passato. Del “macellaio di Bosnia”, Mladic, uno condannato dal Tribunale internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità e genocidio, contrabbandato per “grande guerriero che combatte per il suo popolo”. Del “negro di merda” in faccia a Vieria durante un Lazio-Arsenal di Champions League, per il quale non si scusò mai; puntualizzò che l’offesa era “merda” non certo “negro”. Vieira – diceva – non ha avuto il coraggio da uomo di ammettere le sue provocazioni: “A Donetsk un mese fa mi hanno spaccato uno zigomo: non ho fiatato”. All’Inter, da secondo di Mancini, lo ritrovò, Vieira. E anche Ibrahimovic, che in un Juventus-Inter del 2005 gli aveva rifilato una testata. Finirono a cantare a braccetto, con Fiorello e Amadeus, “Io vagabondo che sono io” al Festival di Sanremo. Alla Fiorentina capitò lo stesso con Mutu, al quale aveva sputato durante un Lazio-Chelsea di Champions League. I cerchi della vita si chiudono sempre, prima o poi. E lui ci teneva a chiuderli tutti: “Le persone cambiano. Quando ero giovane, andavo a sottrazione, andavo a dividere il noi dagli altri, avevo bisogno dei nemici perché era quello che mi stimolava. Ho imparato tanto, ho capito tante cose”. I condoni dell’anima, quelli non gli sono mai interessati.
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