“Non c’è pace senza giustizia” è lo slogan che 25 anni fa accompagnò la nascita della Corte penale internazionale (Cpi): con la firma dello Statuto di Roma nel 1998, gli Stati si impegnavano a creare un organismo sovranazionale in grado di chiamare a giudizio i singoli per rispondere di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio commessi in un dato Paese, in modo da evitare che si ripetessero gli orrori del Novecento. Oggi, tale istituzione “è più che mai valida”, sottolinea in un’intervista con l’agenzia Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che per edizioni People ha scritto insieme ad Antonio Marchesi, docente di diritto internazionale ed ex presidente di Amnesty International Italia, il saggio ‘Giustizia senza confini. Crimini internazionali e lotta all’impunità’. Noury spiega così il senso di un testo “non scientifico” bensì divulgativo: “Una buona occasione per fare un bilancio. Abbiamo analizzato non solo un quarto di secolo del principale organo della giustizia internazionale ma anche ciò che l’ha preceduto (i vari tribunali ad hoc costituiti a partire dagli anni Novanta) e ciò che c’è intorno, soprattutto l’affermazione sempre più ampia del principio della giurisdizione universale”. Uno studio da cui emerge “una fotografia fatta di chiaroscuri- dice Noury- come spesso succede quando sono in gioco i diritti umani. Ma dobbiamo sempre tenere in mente che la giustizia internazionale è il principale mezzo per porre fine all’impunità per i più gravi crimini di diritto internazionale e per rispondere alla richiesta di giustizia delle società e delle singole vittime”.
Temi che richiamano l’attualità, come dimostra il mandato d’arresto internazionale – sulla scia delle indagini aperte nel 2014 – emesso l’anno scorso a carico del presidente russo Vladimir Putin e di una funzionaria del Cremlino, sulla base delle accuse su minori ucraini portati in Russia, o i procedimenti in corso per le violenze avvenute a seguito delle elezioni presidenziali del dicembre 2010 in Costa d’Avorio, oppure per l’arruolamento di “bambini soldato” in Repubblica Democratica del Congo, o per le presunte atrocità commesse contro persone musulmani in Repubblica Centrafricana tra il 2013 e il 2014, o anche per le accuse di genocidio nel Darfur, in Sudan. Proprio a carico di quest’ultinmo Paese, che è riscivolato nella guerra civile nell’aprile del 2023, “è in corso una delle indagini più antiche della Corte” ricorda Noury, “che ha prodotto una serie di mandati di cattura che, se tempestivamente eseguiti, avrebbero evitato il protrarsi per vent’anni anni di una profonda crisi umanitaria e dei diritti umani”. D’altronde, “il fatto che le principali potenze globali non riconoscano la Cpi è un segnale politico negativo”. A ratificare l’appartenenza all’organismo con sede all’Aia sono infatti 123 Stati, e tra questi mancano all’appello Stati Uniti, Russia e Cina (ossia tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu), insieme, tra gli altri, a Sudan e Israele. Contro quest’ultimo Stato è stato chiamato a rispondere di crimini da un altro organismo, la Corte internazionale di Giustizia (Icj), sia per le violenze che si stanno registrando da ottobre nella Striscia di Gaza che per un parere, chiesto dall’Onu, sulla questione dei Territori palestinesi occupati. Per Noury è importante ricordare anche che “nel 2021 la Corte penale abbia aperto un’indagine su ciò che è accaduto sempre dal 2014 e sta tuttora accadendo nei Territori palestinesi occupati, che chiama in causa sia Israele che Hamas e altri gruppi armati palestinesi”
Bene quindi conoscere e riconoscere l’azione dell’Aia, perché come evidenzia Noury “ha un impatto sulle persone che si trovano nei Paesi in cui vengono commessi tali crimini. Indagini, processi e condanne possono porre fine a situazioni di grave violazione dei diritti umani”. Ma fornisce uno strumento anche per gli esuli all’estero. “Lo abbiamo visto con i tribunali tedeschi – quindi delle corti statali – che hanno emesso condanne per crimini commessi in Siria dopo la guerra scoppiata nel 2011, oppure quelli svedesi relativamente a crimini commessi in Iran”. Secondo Noury, però, nulla va dato per scontato. “Vediamo cosa ne sarà dell’esito delle indagini in corso, tra le quali anche quelle relative ad Afghanistan e Libia” sottolinea il portavoce di Amnesty. “Certo, l’efficacia della giustizia internazionale può anche dipendere dalla maggiore o minore sensibilità e prontezza dei suoi organi, ma soprattutto chiama in causa la volontà degli Stati di collaborare, fornire risorse, conservare prove. Il fatto che le principali potenze globali non riconoscano la Corte penale internazionale, però, di per sé può non essere un ostacolo insormontabile”. E l’Italia? “Ha dato esecuzione allo Statuto di Roma solo nel 2012, sebbene abbia ospitato la sua istituzione nel 1998″ dice Noury. Inoltre non si è data strumenti adeguati per punire i crimini internazionali in casa propria: ad esempio, il nostro ordinamento non riconosce i crimini contro l’umanità e non ci sono norme specifiche che prevedano la giurisdizione universale”. Noury e Marchesi presenteranno il libro a Roma, alla biblioteca Moby Dick – Hub culturale , martedì 27 febbraio alle 18, in via Edgardo Ferrati, 3a. Interviene con loro Maya Vetri, assessora alla Cultura del Municipio VIII.
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