« Oh, che bel sole di mezz’agosto! »; « Per la Vergin pia di mezz’agosto!
Ruggero Leoncavallo, Pagliacci
Ferragosto, la festività estiva per eccellenza in Italia, ha ispirato registi e sceneggiatori nel creare pellicole che raccontano, ciascuna a modo proprio, questa giornata che nasce come celebrazione pagana e diventa una festa cristiana ed è oggi sinonimo di vacanze, spiagge affollate, pranzi all’aperto e, in generale, di una sospensione dal quotidiano.
Partiamo da “Domenica d’agosto” (di Luciano Emmer, 1950): da una Roma afosa e accaldata, una folla di ogni estrazione sociale e con ogni mezzo di trasporto si mette in marcia verso il lido di Ostia. Da ricordare un Marcello Mastroianni ad inizio carriera, doppiato niente meno che da Alberto Sordi. Poi c’è il brillante Walter Chiari di “Ferragosto in bikini” (di Marino Girolami, 1961), alle prese con altri nomi televisivi dell’epoca in un film che mostra personaggi peculiari che si incontrano sulla spiaggia di Fregene.
Ma la vera celebrazione del Ferragosto in chiave di commedia drammatica si ha con “Il sorpasso” (di Dino Risi, 1962), tra i primi film a raccontare la città svuotata e le imprevedibili avventure dei ‘sopravvissuti’ che restano. Uno dei film manifesto della commedia all’italiana (che volge all’amaro…). Fra i massimi capolavori di Dino Risi (ci ha lasciato nel 2008) che in “on the road” ante litteram ispirerà anni dopo altri autori come Dennis Hopper di Easy Rider o Ridley Scott di Telma & Louise. A Venezia per il Leone d’oro alla carriera a Risi oltre dieci minuti di applausi per la visione restaurata del film; e lì che racconterà del finale tragico da lui voluto con la scommessa fatta insieme al produttore che non lo desiderava in quel modo. Per fortuna la spuntò il regista. C’è, poi, anche l’avventura del monsignore interpretato da Alberto Sordi che rimane bloccato in ascensore, a Ferragosto, con Stefania Sandrelli, raccontata dall’episodio “L’ascensore” (di Luigi Comencini, in “Quelle strane occasioni”, 1976).
Due anni prima era uscito “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” scritto e diretto da Lina Wertmuller, commedia stravagante sulla “lotta di classe” con una accoppiata impareggiabile: Mariangela Melato e Giancarlo Giannini; lei la ricca borghese viziata e lui il mozzo di bordo siciliano e comunista. L’azzurro mare d’agosto è in Sardegna, dove si misura la politica con l’amore, la gelosia e l’amaro ritorno alle proprie consuetudini. La scena intima (ormai un cult) con la battuta della Melato: “Sodomizzami…” e il viso sbigottito di Giannini sintetizza al meglio la riflessione su un’epoca e le sue conseguenze. Coppia impareggiabile in quanto, meno di 30 anni dopo, si è tentato un remake diretto da Guy Ritchie: protagonisti il figlio di Giannini, Adriano, e la cantante attrice Madonna: risultato tutto da dimenticare.
E veniamo al 1977: viene girato interamente in studio – salvo le scene iniziali – “Casotto” di Sergio Citti, allievo di Pier Paolo Pasolini, e ispirato (dirà il regista) proprio da Domenica d’Agosto di Emmer; il film, sceneggiato con Vincenzo Cerami, si avvale di un cast d’eccezione in ruoli pressoché di comparse: da Mariangela Melato a Gigi Proietti, da Franco Citti ad Ugo Tognazzi e Michele Placido, Paolo Stoppa ed un cameo di Catherine Deneuve, fino ad una sedicenne Jodie Foster che l’anno prima aveva ricevuto l’Oscar per il capolavoro di Martin Scorsese “Taxi Driver”. È dello stesso anno “Il giorno dell’Assunta” diretto da Nino Russo con Leopoldo Trieste e Tino Schirinzi, ambientazione surreale nel deserto assolato di Roma.
“Un sacco bello” (di e con Carlo Verdone, 1980) è ambientato in una Roma deserta, e rappresenta l’esordio alla regia dell’attore romano che interpreta i tre personaggi che a modo loro cercano di combattere la propria solitudine e ‘organizzare’ il ferragosto. Anche Nanni Moretti, nel 1993, in “Caro Diario” racconta una Roma desertificata dal Ferragosto nel primo dei tre episodi di cui si compone il film, “In Vespa”: un viaggio nelle bellezze (e bruttezze) della Roma che attraversa.
Come non citare, poi, “Pranzo di Ferragosto” (2008). Ne è regista, autore e interprete Gianni Di Gregorio. Nel film è appunto ‘Gianni’, un uomo di mezz’età, figlio unico, che vive con sua madre in una vecchia casa nel centro di Roma. Il film è fra le rivelazioni della Mostra di Venezia e vince il Premio Opera Prima «Luigi De Laurentiis », efficace resoconto della terza età e della solitudine cittadina che si acutizza durante le feste di mezza estate. La solitudine degli anziani è protagonista anche nel film “Una botta di vita” (regia di Enrico Oldoini, 1988), nel quale due anziani soli partono per un viaggio durante il quale vivranno avventure paradossali e tragicomiche. Infine, in tempi ancora più recenti c’è il Ferragosto raccontato da Paolo Virzì con “Ferie d’agosto” (1996) e “Un altro Ferragosto” (2024).
Ora qualche notazione. Sapevate il 16 agosto è la festa del cinema?
Il 16 agosto si festeggia San Rocco, protettore dei cani, dei contagiati, degli emarginati, dei viandanti, dei pellegrini, dei farmacisti dei dermatologi e del cinema. Non sembra esserci alcun tipo di connessione tra i settori sopracitati, soprattuto non esiste nessun legame che ci faccia pensare che un santo possa proteggere un’arte che è nata soltanto alla fine del 19° secolo, ma è proprio così. Inoltre Agosto è il mese giusto per recuperare i film di cui avete sentito parlare tutto l’anno, ma che non avete avuto tempo di vedere. Ecco gli essenziali, secondo me. Si trovano sulle piattaforme, a volte compresi nell’abbonamento, in qualche caso a noleggio on demand. Babylon. Regia di Damien Chazelle. Con Brad Pitt, Margot Robbie, Diego Calva.
Everything Everywhere All at Once. Regia di Daniel Kwan e Daniel Scheinert. Con Michelle Yeoh, Stephanie Hsu, Ke Huy Quan, James Hong, Jamie Lee Curtis. Questo oggetto bizzarro, trionfatore agli ultimi premi Oscar, è diretto da due registi trentenni che arrivano dal mondo dei videoclip, sono dei cinefili enciclopedici e credo che amino e si ispirino parecchio al mondo di Spike Jonze (Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee, Her). Certamente hanno un talento tutto loro per il pastiche post-moderno come non si vedeva da tempo. Michelle Yeoh interpreta Evelyn, cinese immigrata in America, che gestisce una lavanderia automatica con il marito Waymond (Ke Huy Quan). Insoddisfatta, frustrata, sempre furibonda, alle prese con conti che non tornano, Evelyn ha anche un rapporto che dire disfunzionale è poco con la figlia Joy (Stephanie Hsu) e con l’anziano padre (James Hong), i due poli estremi di ogni dibattito sull’integrazione. Evelyn sta in mezzo, è stanca di tutto e tutti. A scatenare il primo atto del film è lo scontro con la burocrazia: i nostri eroi devono andare a rispondere di tasse non pagate all’impiegata-mostro interpretata da una Jamie Lee Curtis irriconoscibile. Da questo in poi, scatta il delirio. Rivedremo Evelyn in una serie di universi e vite parallele, dove diventa cantante, chef, star del cinema. Le citazioni abbondano, in una sorta di zibaldone visivo che centrifuga il caos. Forse è un abbaglio, forse è il film dell’anno.
“Le otto montagne”. Regia di Charlotte Vandermeersch e Felix Van Groeningen. Con Alessandro Borghi, Luca Marinelli, Filippo Timi, Elena Lietti. Ha vinto il David di Donatello come miglior film, ma anche come miglior fotografia, sceneggiatura non originale e suono. Tratto dal romanzo di Paolo Cognetti racconta la storia di un’amicizia, lunga e profonda, tra due ragazzi, uno montanaro e uno di città. Borghi interpreta il primo e, per farlo, ha preso lezioni per imparare a mungere le vacche, pascolare e fare il formaggio. Ha imparato anche a parlare come un montanaro valdostano e riesce, lui romano de Roma, ad essere credibilissimo. L’amicizia reale tra Borghi e Marinelli, le cui carriere sono sbocciate insieme dai tempi del film Non essere cattivo (2015) regala alle Otto montagne un sapore molto autentico. Girato tra Monte Rosa e Cervino, non a caso è stato il primo vero successo cinematografico dopo la pandemia: è un film che fa letteralmente respirare, con gioia e calma.
Un motivo in più di orgoglio è il David di Donatello al nostro Alessandro Palmerini per il Suono in Presa diretta. Allievo della Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze dell’Immagine dell’Aquila, Alessandro ha collaborato con autori come Daniele Vicari, Carlo Mazzacurati, Nanni Moretti, Mario Martone, Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci, Andrea Segre, i quali hanno alimentato un approccio al Suono non semplicemente tecnico, ma con una visione più ampia, funzionale e coerente all’opera che si stava realizzando. Palmerini ha vinto numerosi altri premi: Nastro d’Argento e David di Donatello nel 2012 per “Diaz – don’t Clean up this blood” di Daniele Vicari, per il quale vince anche il Ciak d’Oro al Miglior Suono. Nel 2008 vince il Ciak d’Oro per “La ragazza del Lago” di Andrea Molaioli, ed il Premio AITS per il film Tv Maria Montessori di Gianluca Tavarelli. Negli anni poi ha ricevuto candidature per il Miglior Suono per “Capri Revolution” e “Qui rido io” di Mario Martone, “I predatori” di Pietro Castellitto, “La Tenerezza” di Gianni Amelio, “Sole cuore amore” di Daniele Vicari, “Io e te” di Bernardo Bertolucci, “L’ultima ruota del carro” di Giovanni Veronesi, “La giusta distanza” di Carlo Mazzacurati, “La prima neve” e “Io sono Li” di Andrea Segre, “L’aria salata” di Alessandro Angelini, e “Aldo Moro il presidente” di Gianluca Tavarelli. Il suo Suono è una ragione in più per vedere Le otto montagne.
“La stranezza”. Regia di Roberto Andò. Con Toni Servillo, Ficarra e Picone, Giulia Andò. Quattro David di Donatello: miglior scenografia, migliori costumi, miglior sceneggiatura originale e produzione. La stranezza racconta di un viaggio in Sicilia di Luigi Pirandello, ormai affermatosi a Roma. Siamo nel 1920 e il drammaturgo arriva nella sua terra natale per un appuntamento “mondano”: il compleanno di Giovanni Verga. Ma la morte della vecchia balia lo costringe a cambiare un po’ i suoi programmi. Pirandello, che cerca di rimanere in incognito come le celebrities di oggi che forniscono false identità alle reception degli hotel, si trova a fare amicizia con due becchini che nel tempo libero gestiscono una sgarrupatissima compagnia teatrale di dilettanti. L’incontro e le sue molte “stranezze” accenderanno il genio di Pirandello e, sembra, gli faranno venire l’idea per la sua pièce forse più importante, certo più famosa: Sei personaggi in cerca d’autore.Il film mette in scena, con molta ironia, la passione per il teatro, la frizione (ma anche la commistione) tra cultura alta e cultura bassa e fa dialogare tra loro il prestigio di Toni Servillo e la popolarità di Ficarra e Picone.
“Air – La storia del grande salto”. Regia di Ben Affleck. Con Matt Damon, Ben Affleck, Viola Davis, Jason Bateman, Chris Messina. Nel 1984 un certo Sonny Vaccaro convinse la madre di Michael Jordan a firmare un contratto di sponsorizzazione con la Nike, un fatto apparentemente marginale ma che avrebbe condizionato il futuro dello sport e del marketing ad esso applicato. Di questo parla il film diretto da Ben Affleck, interpretato dallo stesso regista e dall’amico Matt Damon che è il vero protagonista nei panni (una sinfonia di orrende tonalità di beige) di Vaccaro. Ci sono molte eccellenti idee di regia e sceneggiatura, a cominciare dal fatto che Michael Jordan non si sente né si vede mai, è solo un’ombra (lunghissima) accanto ai suoi genitori. La madre è interpretata dall’immensa Viola Davis che ha troppe poche scene, peccato, ma la battuta migliore del film: “Una scarpa è solo una scarpa finché non la indossa mio figlio”. Non è un film sul basket o su Michael Jordan. Air è un film sul capitalismo, sul personal branding prima che esistesse il termine, ma anche sulla testardaggine e la solitudine. Proprio la solitudine degli uomini, intesi come maschi, così tragicamente comici nella loro smania di voler vincere sempre, voler vincere tutto.
“Il ritorno di Casanova”. Regia di Gabriele Salvatores. Con Toni Servillo, Fabrizio Bentivoglio, Natalino Balasso, Sara Serraiocco, Bianca Panconi. Dico subito che ho un pregiudizio a favore nei confronti di tutti i film sul cinema o comunque dove il gioco tra realtà e (creazione della) finzione si intreccia di continuo, confondendo i confini. Qui, oltre al cinema, entrano nell’equazione anche la letteratura e, attraverso la letteratura, il mito di Casanova, già più volte raccontato nei film, a teatro, nelle canzoni e in molta letteratura. Quindi, ogni riferimento ne trascina un altro, ed è molto divertente, quasi un Sudoku delle citazioni. Salvatores prende il romanzo di Arthur Schnitzler Il ritorno di Casanova in cui il personaggio è crepuscolare, depresso, sempre più consapevole della prossimità della fine e dell’esaurirsi del suo potenziale seduttivo. In parallelo c’è un regista che sta girando il film tratto, appunto, dal Ritorno di Casanova che, ugualmente, attraversa un momento di crisi, di bilanci da fare, di somme da tirare. Giovani registi sono il nuovo che avanza, la vita sentimentale non può più essere ridotta a relazioni superficiali. Bisogna impegnarsi, bisogna diventare adulti, ma adulti davvero. I temi sono crudeli ma la realizzazione di Salvatores è leggera, aggraziata e, lasciatemi usare un aggettivo un po’ fuori moda, mozartiana.
“Finalmente l’alba”, di Saverio Costanzo, con Lily James, Rebecca Antonaci, Joe Keery, Rachel Sennott, Alba Rohrwacher, Willem Dafoe. Per me il più bel film del 2023. In concorso a Venezia 80., è la storia di Mimosa, una ragazza semplice che fa la comparsa a Cinecittà nella Roma degli anni Cinquanta. Accetta l’invito mondano di un gruppo di attori americani e con loro trascorre una notte infinita. Ne uscirà diversa, all’alba, scoprendo che il coraggio non serve a ripagare le aspettative degli altri, ma a scoprire chi siamo. Saverio Costanzo torna alla regia di una sua sceneggiatura originale dopo il successo della serie L’amica geniale, di cui conserva l’approccio alle scene iniziali, e inizia con un “film nel film” che sottolinea la finzione del cinema. Segue poi l’omaggio con citazioni di Bellissima e la (magistrale) interpretazione di Carmen Pommella (reduce da L’amica geniale, oltre che da una lunga carriera teatrale) nei panni della madre di Mimosa, e poi una ricostruzione “kolossale” (ma con inquadrature alla Sergio Leone) di un “peplum” d’epoca egizia. Poi però la storia derapa verso un percorso vertiginoso che è un evidente omaggio proprio a La dolce vita felliniana, con il suo procedere dalle tinte e le proporzioni alterate dell’incubo (e che quindi ricorda anche il Fuori orario di Scorsese). Le interpretazioni giocano bene sul contrasto fra la finzione ostentata: la caratterizzazione alla Rita Hayworth di Lily James nei panni di Josephina, l’italiano stentato di Willem Dafoe in quelli dell’onnipresente Rufo, la legnosità da “matinée idol” di Joe Keery (ex Stranger Things) si contrappongono alla sincerità luminosa di Rebecca Antonaci nei panni di Mimosa, cuore emozionale del film, portatrice di autenticità in un mondo di contraffazione.
Per chiudere altri 2 film del 2023, assolutamente da non perdere.
Il primo è “Past lives”, esordio di Celine Song, nata in Corea del Sud, ma poi emigrata con la famiglia in Canada e ormai residente da tempo a New York, negli Stati Uniti, dov’è diventata una commediografa riconosciuta. Il film è ispirato alla sua vita. Tuttavia, è trasfigurato in una sorta di viaggio sensoriale e spaziotemporale, filtrato dalla sfera intima. Mantiene sempre un tocco leggero e sognante, senza nulla togliere però alla profondità della dimensione introspettiva, anzi. Diviso in lunghe sequenze che sembrano come delle capsule, o astronavi ovattate, è anche un cinema d’ambiente, così come esiste la musica d’ambiente. Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo) sono due ragazzi profondamente legati, ma a un certo punto la vita li divide radicalmente, come se in una storia di fantascienza – a cui la cineasta si richiama esplicitamente – ci fosse stata una frattura e due universi paralleli si incrociassero, generando in maniera del tutto imprevista una storia altra, una rottura netta rispetto alla linearità temporale conosciuta. Se si considera questo, la sequenza della parte iniziale, in cui i due protagonisti si salutano prendendo strade opposte – quella di lei tutta in salita – acquisisce un senso più sottile e profondo di quanto una metafora didascalica lascerebbe intendere a prima vista. Così come la melassa retorica o di maniera, in agguato perché la cineasta si muove su un filo molto sottile come un’equilibrista, è sempre evitata: fin dall’inizio, Nora e Hae Sung, ancora dodicenni, si dicono già in faccia le cose con una franchezza un po’ cruda. E già si percepisce l’ansia della riuscita e dell’oppressione sociale che, sottotraccia, attraversa un film dominato dalla dimensione intima.
L’altro è l’ennesimo capolavoro di un autore che stupisce sempre: Wim Wenders. Il titolo “Perfect days”, che racconta di un umile addetto.alla pulizia dei cessi, le “giornate perfette” di Hirayama come una quieta affermazione di dignità quotidiana. L’uomo svolge il suo lavoro con gesti precisi ed essenziali, accogliendo l’occasionale contatto umano (anche nella forma anonima di una partita a tris proposta su un foglietto) con generosità e rispetto. Tutto in lui è rimasto analogico, come le musicassette che ascolta o la macchina fotografica i cui rullini vanno fatti sviluppare, e le fotografie vengono collezionate in scatole numerate che archiviano la nostalgia del tempo che passa. La concezione architettonica di Wenders incastona la figura umana in spazi ben squadrati e confinanti (a cominciare dal formato 4:3 che ad un certo punto diventa quello ancora più ristretto dell’inquadratura da cellulare), e in una Tokyo in cui il sole sorge (non a caso siamo nel Paese del Sol Levante”) accompagnato dalla canzone perfetta (The House of the Rising Sun). La fotografia nitida e precisa di Franz Lustig accompagna il ritratto della serena e composta solitudine di un uomo che sa di appartenere ad un’altra epoca e che ha fatto pace con i suoi errori del passato. Koji Yakuso, che alcuni ricorderanno in Babel di Alejandro Inarritu ma anche ne Il terzo omicidio di Hirokazu Kore’eda o The Eel di Imamura Shohei, è lo straordinario interprete di questo film quasi muto che si snoda in purezza attraverso uno sguardo contemplativo ma mai artefatto. A lui l’Oscar quale migliore attore 2023. Ancora una volta: buona visione.
Per chi ama anche leggere di cinema e per chi crede che esso, nel bene e nel male, celi intenti gnostici una chiosa finale.
“Pillola rossa o pillola blu?” è l’arcinota domanda posta da Morpheus a Neo in Matrix. Il film è del 1999: quell’anno esce anche eXistenZ di Cronenberg, affine al capolavoro dei fratelli Wachowski per tematiche e atmosfere, che ci parla sempre di una realtà vera e una simulata. Al di là delle sfumature, a risuonare è sempre la stessa domanda: come facciamo a sapere che il mondo in cui viviamo è quello vero? I film escono a un anno dalla fine del XX secolo, rappresentandone in qualche modo l’epilogo. Il martoriato “secolo breve” delle ideologie opta così per una via alternativa, proponendo all’uomo una fuoriuscita dalla Storia: «Pillola rossa o pillola blu?». Che in Matrix significa: continuare a vivere in un mondo irreale oppure svegliarsi alla vera vita? Mobilitato dalle teologie politiche e dai totalitarismi, è ora l’uomo a dover compiere una scelta, secondo un retaggio che affonda le proprie radici in un passato molto lontano e che ci costringe a guardare alla Storia in modo radicalmente diverso. E tutto questo avviene nei prodotti cosiddetti “di massa”. Un paradosso? Fino a un certo punto.
Lo storico delle religioni Mircea Eliade ci ha insegnato a trovare nelle produzioni contemporanee patterns di tipo spirituale, tracce di archetipi che si manifestano periodicamente, spesso riemergendo nei modi più disparati e imprevedibili. È lo stesso intento che anima Pillola rossa o Loggia Nera? di Paolo Riberi, uscito per Lindau nel 2017. Il testo, che sonda la Settima Arte in cerca di tematiche gnostiche, presenti in film e serie tv a volte secondo una precisa intenzione dei registi, altre un po’ meno, riflettendo tematiche ben presenti nell’Inconscio Collettivo. La chiave di volta è l’idea che le vecchie teorie della gnosi si affaccino oggi sul grande schermo: «Dopo un conflitto millenario con il cristianesimo, questo antico pensiero religioso trova spazio in molte opere cinematografiche». Una mitologia nascosta – e nemmeno troppo bene – che si riflette in trame e personaggi, «raccontata in maniera approfondita e sistematica, utilizzando i moderni linguaggi della fantascienza, del noir, del fantasy e persino dell’horror».
Non che ciò sia appannaggio del cinema. Solo concentrandoci sulla letteratura “di genere”, impossibile ignorare le tracce gnostiche presenti nei romanzi di Philip K. Dick e nella trilogia cosmica di C. S. Lewis (Lontano dal pianeta silenzioso, Perelandra e Quell’orribile forza), con il suo sistema di divinità planetarie, così come in V per Vendetta di Alan Moore, che ha dichiarato: «Nel fumetto originale può emergere qualche sfumatura di gnosticismo». L’anarchia di cui si parla nel fumetto – parola di Moore – ha anche «un aspetto spirituale: ritenevo contenesse una grande carica di romanticismo, ed ero molto interessato all’occulto e alle idee gnostiche». Tra parentesi la sceneggiata è dei fratelli (sorelle) Wachowski.
Ma quali sono i principi fondamentali della gnosi, ereditati da film e serie tv?
In primis, l’esistenza di una pluralità di mondi e l’idea che il nostro sia una prigione custodita da un Demiurgo e dai suoi subalterni, gli Arconti. Se l’umanità ne è generalmente all’oscuro, diversamente vanno le cose per il prescelto gnostico, il quale, a seguito di rivelazioni ottenute spesso grazie a esperienze sovrannaturali, si risveglia al mondo vero, compiendo un cammino di liberazione interiore. Ecco i filtri usati da Riberi per elaborare un atlante della “gnosi pop”, una geografia alternativa che include alcuni tra i film più visti degli ultimi vent’anni: da Jupiter dei fratelli Wachowski a Dark City, da Donnie Darko a Ghost in the Shell, fino al visionario Eraserhead di David Lynch, dal “risveglio” degli androidi di Westworld allo stato sonnambulico di Jim Carrey-Truman (True man), ispirato al romanzo di Philip K. Dick Tempo fuor di sesto.
Ma il piatto forte del libro è sicuramente il capitolo dedicato alla temibile Loggia Nera che si affaccia nella sinistra cittadina di Twin Peaks raccontata da David Lynch e Mark Frost. Una sorta di non-luogo in cui esseri immateriali si spostano da un piano della realtà all’altro, insinuandosi nella mente degli ignari abitanti e costringendoli alle peggiori nefandezze, spesso utilizzando come medium elettricità o animali («I gufi non sono quel che sembrano» rivelava il Gigante al leggendario Dale Cooper, alter ego di Lynch stesso). Sono gerarchie di spiriti che ricordano (come ha scritto Roberto Manzocco nel suo purtroppo introvabile Twin Peaks e la filosofia) gli Arconti della gnosi. Si annidano nell’oscurità delle foreste, ma possono essere visti da personaggi dotati di un certo occhio interiore – come la “Donna Ceppo”, che parla per conto di un pezzo di legno. In Io vedo me stesso, Lynch ha rivelato trattarsi di una medium, e quel pezzo di legno altro non è che il suo “spirito guida”. Come sanno tutti i fan della serie, la cittadina di Twin Peaks è in balia di due luoghi onirici, la Loggia Bianca e la Loggia Nera (la “Dimora del Limite Estremo” ideata da Mark Frost, che s’ispirò agli studi di Dion Fortune), abitata da uno spettrale nano che danza e parla al contrario e dai doppi dei protagonisti. Sono luoghi nei quali si può entrare attraverso varchi spazio-temporali aperti nei boschi che circondano Twin Peaks, e da cui escono oggetti (come il terribile anello di Fuoco cammina con me, prequel della serie), oppure animali e spiriti, appunto.
Ma Loggia Bianca e Loggia Nera sono precedute da una Stanza Rossa: per chi abbia dimestichezza con l’Alchimia, inutile segnalare come questi siano i colori che simboleggiano i tre stadi dell’Arte Regia, nigredo, albedo e rubedo… Nella prima fase – l’Opera al Nero, la Notte dell’Anima che folgorò Carl Gustav Jung – avviene la dissoluzione dell’individualità, la disgregazione delle certezze. Ebbene, nella Loggia Nera ogni personaggio incontra la propria parte oscura – l’ombra, direbbe sempre Jung. Con la quale occorre riconciliarsi. Parola di David Lynch: «Raggiungere lo spirito divino attraverso la conoscenza della combinazione degli opposti. È questo il nostro viaggio». Interpretazioni azzardate? Basterebbe dare un’occhiata al curriculum dei due registi di Twin Peaks… David Lynch pratica la Meditazione Trascendentale, creata e portata in Occidente da Maharishi Mahesh Yogi (il guru dei Beatles, per capirci). Una pratica non priva di legami con le sue varie attività, come ha rivelato lui stesso: «Il programma di Meditazione Trascendentale che pratico da anni ha svolto un ruolo fondamentale per il mio lavoro nell’ambito del cinema e della pittura e di ogni sfera della mia vita; è stato un modo per immergermi in acque sempre più profonde».
Parola di un gigante del cinema.
Ah, dimenticavo. C’è anche qualcosa da non vedere: Borderlands (uscito in questi giorni) che è un insulto ai gamer, a chi ama il cinema, e a tutte le forme di vita organica. Si potrebbe dire che questo è semplicemente il peggior film tratto da un videogioco di sempre, ma anche così non sarebbe abbastanza. E di mezzo ci va pure la (brava) Cate Blanchett. Il livello di qualità dei film tratti dai videogiochi è sempre stato incredibilmente basso, e il motivo per cui queste trasposizioni da schermo a schermo siano così difficili da realizzare è un argomento per un altro giorno. Borderlands non soffre solo delle solite difficoltà nel trasportare qualcosa di enormemente popolare da un medium all’altro, sperando che la maggior parte degli elementi amati e vitali non si perda nella traduzione. È, senza mezzi termini, un terribile spreco di tempo, talento e pixel. Neanche il piacere di vedere Cate Blanchett roteare pistole e fare a botte riesce a salvare questo film.
Carlo Di Stanislao
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