Anche e soprattutto la visione delle malattie, comprese quelle rare, è un aspetto culturale. Così come il modo di trattarle. Non è detto che tutti diano lo stesso peso alla malattia e alla sua cura. Lo si vede chiaramente, da anni, nella presa in carico del bambino migrante.
“Nella nostra cultura l’accento è sul singolo malato, mentre in altre realtà conta di più l’impatto sociale della patologia, a partire dall’impegno che altri mettono in campo per assistermi e farmela passare”. E “non funziona” allora nemmeno l’opuscolo sanitario, oppure un cartello in ospedale, tutto scritto sulla base della mera traduzione nelle varie lingue straniere più diffuse in Italia, arabo e non solo. Lo evidenzia la professoressa Maria Grazia Busà, per l’Università di Padova esperta di accent reduction, public speaking, comunicazione non verbale e comunicazione interculturale, oggi al congresso della società scientifica SIMMESN (studio delle malattie metaboliche ereditarie e screening neonatale) di scena in questi giorni a Montesilvano.
Busà ha parlato alla platea di centinaia di ricercatori ed esperti con la lezione “La comunicazione nella presa in carico del bambino migrante nelle malattie metaboliche”. Nonostante il grande sforzo degli operatori sociosanitari in particolare, come mai non si riesce a decollare nel dialogo sanitario con gli stranieri? L’esempio calzante diventa quello dell’opuscolo o del cartello tradotto in ospedale. Diffusa negli ultimi anni e promossa come pratica di inclusione, non tiene però conto, ad esempio, “della significativa percentuale di analfabeti” che può ancora interessare questo tipo di pazienti, puntualizza Busà, oppure, ancora di più, della circostanza per cui “tante persone non si sentono comunque a proprio agio nella lettura di un testo scritto. Se volessimo rendere più digeribili queste informazioni tradotte, quindi, bisognerebbe renderle molto più chiare e visibili, ricorrendo a soluzioni grafiche o promuovendo un lavoro diverso sulle parole impiegate”, suggerisce la prof. Senza svolte all’orizzonte, quindi, “non sorprendiamoci poi se il messaggio non arriva chiaramente”. Più in generale, anche nei rapporti sanitari con le famiglie arrivate in Italia “bisognerebbe partire dall’informazione e promuovere corsi di formazione specifici”. Tutto ruota intorno all’etnocentrismo, dice Busà dal palco: “Uno pensa che le proprie categorie mentali si possano applicare universalmente, mentre invece culture diverse crescono con abitudini linguistiche e culturali diverse.
Quindi, cambia tutto il modo di intendere la realtà. Non è che “tu sbagli”, è che vedi le cose in maniera diversa”. Una questione “fondamentale”, quando ci si approccia ad esempio ai problemi dei bambini migranti e delle loro famiglie, non solo per quanto riguarda le malattie rare, è la differenza tra approccio diretto e approccio indiretto. “Lavorando- prosegue l’esperta padovana- con tanti assistenti sociali e ultimamente anche con tante aziende, che non riescono a comunicare con i lavoratori immigrati che assumono, ci si chiede come reagire ad una persona che non ti guarda in faccia quando le parli, per dire. Possiamo pensare che non sia sincera, o che non abbia interesse per quello che le sto dicendo, quando invece spesso alla base c’è unicamente una differenza di impostazione culturale. Del tipo io non ti guardo in faccia proprio perché ti sto rispettando, mentre tu occidentale pensi che non ti stia ascoltando”. Allora, anche il silenzio, in tutto questo, è cruciale, “perché può significare ascolto, seppur appunto a prima vista non sembri così. Per non dire del concetto del tempo: mentre nella nostra società scandisce le nostre giornate, e quindi notiamo se qualcuno arriva in ritardo e ci arrabbiamo, in altre culture assume un concetto meno marcato”.
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