La nostra storica Torre Civica, in Piazza del Palazzo, ha subìto nel corso dei secoli molte “ingiurie” – umane e naturali – in particolare dai maggiori terremoti che hanno colpito la nostra Città nel corso del tempo. Si è ferita, ha resistito, è rinata, si è rigenerata, e così tutt’oggi possiamo ammirarla svettare da vicino e da lontano, attraverso i suggestivi scorci di vie e di vicoli che ci offre la pianta urbana del nostro centro cittadino, grazie al preciso disegno di strade che s’incrociano e si raccordano in maniera regolare e ben pianificata.
Eppure, c’è stato un momento storico ben preciso in cui abbiamo rischiato di perdere questo monumento così rappresentativo e identificativo per la nostra Città: ma non a causa di un terremoto, bensì per via di una sconcertante volontà umana che fortunatamente non si è concretizzata.
Ce lo racconta, ad esempio, Emidio Mariani citato da Maria Rita Acone negli «Itinerari in città», a cura dell’associazione «Panta Rei» (Perdonanza Celestiniana 2008 – Itinerario «Le piazze delle antiche fiere e i palazzi signorili del centro»; in: perdonanza-celestiniana.it ).
Erano le «ore 16» del 04 settembre 1837 quando un “fortunale” – una burrasca con fortissimi venti – danneggiò la Torre di Palazzo e «fe’ cadere l’aquila di piombo».
Nota. Le «ore 16» indicate da Emidio Mariani potrebbero anche corrispondere alle ore 10.40 circa di oggi: in quell’epoca, infatti, si usava ancora spesso il sistema delle «ore italiche», che conteggiava l’orario a partire dal tramonto del sole. Nel periodo intorno al 04 settembre a L’Aquila il sole tramonta alle ore 19.40 circa (ora legale) che corrispondono alle ore 18.40 (ora solare); quindi, se contiamo 16 ore a partire dalle 18.40 ecco che arriviamo alle 10.40 del mattino successivo. Il nostro conteggio contemporaneo si basa infatti sulle «ore francesi» («ora oltremontana»), che arrivarono in Italia tra il Settecento e l’Ottocento, e in particolare con le campagne napoleoniche; l’«ora oltremontana»(«ora francese») conteggia il tempo partendo dalla Mezzanotte anziché dal tramonto. Nel corso dell’Ottocento l’«ora oltremontana» si diffuse gradualmente insieme agli orologi meccanici ma, per diverso tempo, si continuò a conteggiare soprattutto con il sistema “italico”, il quale richiedeva costanti aggiustamenti degli orologi meccanici ma – in compenso – era più pratico per conteggiare quante ore di luce rimanevano, poiché le ore 24 coincidevano con il tramonto e l’illuminazione elettrica ancora non esisteva. Non è certo se il Mariani abbia indicato le 16 «ora italica» (quindi le 10.40 circa) oppure le 16 «ora francese» (quindi le 16.00) ma, considerato il periodo storico, è probabile che fosse ancora più diffuso il sistema dell’«ora italica».
Torniamo alla Torre e ai danni del fortunale.
Con il pretesto dei danni e del fatto che la costruzione fosse malandata dalle offese del tempo, le autorità pensarono di abbatterla del tutto poiché ritenevano – forse – troppo “impegnativo” e costoso ristrutturarla. E così, il 12 gennaio 1838 venne tolto l’orologio e iniziò la demolizione della Torre, come ci narra sempre Emidio Mariani.
La protesta dell’opinione pubblica fu massiccia e trasversale, dai ceti popolari fino a quelli socialmente più “alti”. Due fogli manoscritti, come fossero due “volantini”, ci rendono l’idea del clima di malcontento e di dissenso generale che suscitò quella proposta: si tratta di due copie simili, dallo stesso contenuto ma di mano diversa, due manoscritti, uno riportato da Emidio Mariani, l’altro da Angelo Leosini.
I due fogli presentano in alto un disegno-vignetta molto interessante, una “fotografia” dell’epoca della Torre con Palazzo Margherita, e in basso due sonetti invettivi: il primo in dialetto aquilano, di registro più popolare; il secondo, più “cólto”, in un’àulica lingua italiana letteraria. Si tratta di due registri linguistici differenti ma che deplorano allo stesso modo la decisione dell’abbattimento: non sono noti gli autori dei sonetti; forse potrebbero essere stati scritti da una stessa persona, capace di esprimersi sia nel nostro dialetto sia in italiano letterario, oppure raccolti oralmente e poi sistemati su carta con rigorosa metrica poetica.
Il disegno in testa a questi fogli (→ vedi immagine allegata delle due vignette), anche se con differenze “stilistiche” fra i due, è praticamente lo stesso, dai toni fortemente satirici e sarcastici:
si vedono la Torre Civica con Palazzo Margherita e alcuni uomini ben vestiti (probabilmente i decisori politici dell’epoca), che indicano la Torre ed esclamano «tollite! tollite!», latinismo che sta per «togliete! togliete!» , ossìa «abbattetela!».
Il disegno riporta anche altri importanti dettagli: in alto si legge una scritta in latino che recita «Et quae sunt in honore cadent» (=E quelle cose che ora sono in auge cadranno); come dire che le cose che ora sono considerevoli, maestose, belle, cadranno. Si tratta molto probabilmente di una citazione tratta e riadattata da un passo dell’«Ars Poetica» (o «Epistula ad Pisones») di Orazio (versi 70-71), che parlando della Poesia afferma: «Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque quae nunc sunt in honore vocabula» (=Molte parole che già caddero nell’uso, rinasceranno, e molte che oggi sono in onore, cadranno).
Nel disegno riportato dal Mariani, sotto la citazione latina si vede anche quella che sembra una campana; in aggiunta alla campana sulla Torre che, invece, si osserva anche nella vignetta riprodotta negli «Annali» del Leosini.
Il disegno sopra i sonetti ci illustra poi ulteriori interessanti curiosità:
1- la lanterna e la garitta. A destra di Palazzo Margherita si vede il braccio di un lampione a lanterna, di quelli in uso all’epoca dei fatti (1837-1838, quando ancora non c’erano le linee elettriche), e una figura che sembra una garitta di guardia. Tra l’altro – una breve curiosità – proprio nel corso dell’Ottocento Palazzo Margherita divenne sede dei Tribunali, e rimase tale fino agli anni ’60 del Novecento, tanto che l’odierna Via delle Aquile, la quale costeggia il lato sud della Torre e del Palazzo, veniva indicata altresì come Via dei Tribunali. Palazzo Margherita è stato quindi anche il «Palazzo dei Tribunali», come descritto nelle didascalìe di alcune immagini d’epoca, e già menzionato come tale nel 1848 da Angelo Signorini («Palazzo de’ Tribunali», in «Monumenti Storici e Artistici della Città di Aquila»); senza dimenticare poi lo storico ex «Bar Tribunale» al civico n. 1 di Via Andrea Bafile (angolo con Via Paganica, di fronte a Palazzo Margherita), la cui insegna era ancora visibile dopo il sisma del 2009, prima della ristrutturazione dello storico palazzo, a ricordare la passata presenza del Palazzo di Giustizia in quella zona. Soltanto dopo il trasferimento del Palazzo di Giustizia nel nuovo presente complesso di Via XX Settembre – Villa Gioia, Palazzo Margherita divenne l’odierna sede del Municipio aquilano;
2 – l’orologio pubblico. Il disegno della Torre ci mostra anche la posizione dell’orologio più antico, smontato all’inizio del 1838, il quale si trovava più in basso sulla facciata della Torre rispetto ad oggi; proprio dopo la ristrutturazione di quegli anni, venne sostituito dal nuovo orologio che ora vediamo situato più in alto;
3 – l’aquila civica. E ovviamente, sempre sulla facciata della Torre, si vede un’aquila, animale araldico che rappresenta il nostro emblema civico fin dalle origini (come vediamo ad esempio nei medievali «Statuta Civitatis Aquile», gli Statuti civici).
Alla fine, fortunatamente, prevalsero il buonsenso e il forte legame storico e identitario tra la cittadinanza e l’antica Torre di Palazzo, e così «al 14 agosto… la campana vi fu fissata e a mezzogiorno vi fu suonata con allegria di tutta la popolazione. Al 6 ottobre fu ripristinato l’orologio con l’illuminazione»; sempre dal racconto di Emidio Mariani.
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I sonetti.
E ora, per concludere, leggiamo insieme i due sonetti di protesta e d’invettiva contro la decisione di demolire la nostra antica e simbolica Torre Civica.
Sonetto 1°
(due quartine con rima ABBA – BAAB, e due terzine con rima CDE – CDE):
« 1 Uh scure nu comma’ ! Lo sa? L’ha ntisu? /
2 Uh se sapisci se che bonno fane /
3 Le carni sentiristi raggricciane /
4 L’Aquila bella se fa nu straìsu /
5 Unu ngegnere che pozz’esse mpisu /
6 La torre de palazzu ‘o fa jettane /
7 Prequè se no, non ponno frabicane /
8 E ch’è tropp’auta, e che fa troppu pisu /
9 E gliu rologiu nostru? Uh munnu porcu /
10 E gli noantanoe? Uh mara nune ! /
11 Tuttu ce lea quella brutta cera . /
12 E pe’ nu nfame scemarellu sporcu /
13 Aquila me, mo che te resta chiune ? /
14 Atru la poca sguilla, e la Riera. »
Note. «straìsu» (=straviso, scempio);
«mpisu» (=appeso, impiccato);
«E gli noantanoe?» (=riferimento ai novantanove rintocchi che, normalmente, la campana della Torre batte ogni sera);
«la Riera» (=la Rivera, con probabile riferimento alla monumentale Fontana della Rivera, detta anche «delle Novantanove cannelle»).
Sonetto 2°
(due quartine con rima ABBA – ABBA, e due terzine con rima CDC – DCD):
« 1 È dunque ver che la sentenza uscìo /
2 Di tua morte crudel’ eccelsa torre, /
3 E di colpa non tua ch’altri osa apporre /
4 Infelice a pagar t’appresti il fio?
5 Invan purtroppo il nostro pianto in rio /
6 Per ogni via, e per le piazze scorre /
7 Che al tuo fato crudel non possi opporre /
8 Lo a te sempre fedel suolo natìo. /
9 Ma cadan le tue pietre in test’a cui /
10 Te meschina incolpando ognor’ a torto /
11 Tanto pianto versar già fece a nui. /
12 E vada intorno con lo collo storto /
13 Mostrando al mondo ed a nemici tui /
14 D’una Torre Aquilan qual sia l’importo. »
Note. «fio» (=colpa);
«pianto in rio» (=pianto a fiume, un «rio» appunto);
«meschina» (=poverina);
«importo» (=importanza, valore).
I sonetti sono stati trascritti sempre dai due manoscritti già citati sopra, riportati da Emidio Mariani e da Angelo Leosini.
Si ringraziano Maria Rita Acone e Sandro Zecca per il proficuo confronto in merito alla stesura di questo articolo.
Mauro Rosati
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