I luoghi d’elezione in realtà sono un dono gratuito. Ecco perché finiscono sempre con il diventare i luoghi dell’anima. Conosco gente che si è affannata una vita per trovare un angolo di cielo su questa terra. Io ci ho messo molto meno: giusto il tempo di rendermi conto che c’era un paese che mi scorreva nelle vene e che questo paese si chiamava Vigliano, presso il Valico di Sella di Corno, prima che la Salaria si butti a precipizio, in secchi tornanti, sopra Antrodoco, costeggiando per breve tratto, quasi a salutarla, la venerata Madonna delle Grotte. A Vigliano c’ero stato sfollato, durante l’ultima guerra, con la mia famiglia che da lì originava. Mio padre, impiegato di Questura, risaliva i 20 chilometri di strada, a fine settimana, svalicando le montagne per proteggere un po’ di generi alimentari che ci portava dalla città. Quando l’inverno ci coglieva, improvviso, ci rotolavamo per i pendii su slitte improvvisate fino a quando si finiva con la testa dentro il vortice bianco. Quando l’estate ci respirava addosso, erano fiori di campo e mèssi che indoravano al sole, fino alla mietitura. Mi sono sempre chiesto come la rossa macchina trebbiante, così instabile, raggiungesse l’aia grande senza ribaltarsi. Ma la festa che seguiva ripagava di ogni ansia. Nessuno mi ridarà mai le corse a dorso di mulo, con due sacchi di grano per soma, dall’aia alla rimessa. Stavamo ad abitare nella casa canonica, a fianco alla Chiesetta, ultima costruzione del paese. Ancora qualche prato e poi incominciava la montagna. A fianco alla Chiesa, la sentina ricoperta di terra. Ci giocavamo sopra -e ci giungeva, dall’interno, lo scroscio dell’acqua- plasmando con la creta santi, pecorelle e uccellini: mancava giusto un soffio per dargli l’anima e vederli volare o camminare, come quelli di Gesù piccolo nei testi apogrifi.
L’alba, a Vigliano, mi destava al suono dei campani degli armenti e delle greggi portati al pascolo. Li riconoscevi dal suono, grave od acuto prima ancora che belassero o muggissero, mentre i bianchi pastori abruzzesi trafelavano, in andirivieni folli, tenendo serrata la guardia. Prima dell’ultimo tratto in salita, verso la Chiesa, lunga e a manca, stava la casa di nonno Vincenzo, costruita, ma non finita, con i soldi di emigrante alle miniere d’America. Lì nacque anche mia madre, che conobbe l’Italia solo intorno ai dieci anni, quando tutta la famiglia tornò in Italia. Sulla sua carta di identità, indicando il luogo di nascita di Pompei Gina, qualche ufficiale d’anagrafe poco accorto scrisse “Ogninton”, storpiando chissà quale cittadina americana. Non sono mai riuscito ad identificarla, ma lei, oramai, era nata là per sempre. In quella casa mia nonna Mariantonia si affaccendava tra la cucina, i bucati di lisciva, e la fattura di ricotte e formaggi a latte munto. Sapori e odori irripetibili, come tutte le favole dell’infanzia sparita.
Due episodi, sopra gli altri, insistono tra i ricordi di allora. Il primo. Domenica di luglio o d’agosto. Sopra la Chiesetta e la canonica c’era tutto il sole del mezzogiorno. Mia madre, in cucina, preparava il pasto frugale mentre nella pentola stavano a lessare le patate. Zio Prete era a “pararsi” in sacrestia. Dalle porte socchiuse gli dovette giungere l’eco dei capricci di mio fratello maggiore Vincenzo. Improvvisamente la porta di cucina si spalancò con un calcio e comparve lui. Mio fratello fece in tempo a precipitarsi fuori. In cucina, don Vincenzo, trovò me con una patata lessa infilzata in una forchetta. Credendo che fossi io il caciarone, incominciò a prendermi a calci nel sedere correndomi dietro su per la sentina. Non ci fu calcio in grado di farmi mollare la patata lessa. Oggi ripenso e rivedo quella scena come fosse la sequenza di un film: Zio Prete che mi rincorre già vestito di tutto punto per la Messa, calice in mano, io che le prendo e fuggo. Roba da non sfigurare in “Per grazia ricevuta” di Nino Manfredi.
Il secondo episodio. Stando all’Aquila, avrò avuto intorno ai dieci anni, una mattina d’estate presi di nascosto la bicicletta e mi precipitai per la discesa di Via Crispomonti mentre mia madre mi rincorreva disperata. Imboccai Via Fortebraccio, traversai Porta Bazzano, mi immisi nella Statale scarsa di segnaletica, e pedalando con fatica giunsi a Sassa dove feci visita a zia Giuseppa che mi approntò un ricco pranzo, grata della visita. Nel primo pomeriggio, invece di prendere la direzione dell’Aquila, proseguii verso Vigliano. Alla salitella di Civita Tomassa, una delle poche automobili allora in circolazione mi tamponò mentre cercavo di andare avanti a zig-zag per vincere la pendenza. Accorse gente, mi rincuorarono con biscotti e cordiali. Ma quando feci per rimontare in sella, mi accorsi che la ruota posteriore della bicicletta era piegata in due. Lasciai la bici da un meccanico del posto, e senza pormi altri problemi raggiunsi Vigliano a piedi, giusto per l’ora di cena. Mangiai da zia Emma e poi, al lume di candela, ce ne andammo a dormire, io e mio cugino Ettore, nel lettone di foglie di granturco. Stavo sognando quando qualcuno mi scosse. Era mio padre che, non avendomi rintracciato altrove, disperato come gli altri di casa per la mia fuga, aveva preso la littorina di mezzanotte nella certezza e nella speranza di trovarmi in paese.
Torniamo a casa, mi disse, tua madre è in pena. E poi: la bicicletta dov’è? Risposi che era all’inizio del paese. Strada facendo, fingendo di non ricordare bene, spostai ogni volta il luogo del ricovero. Finché a Civita Tomassa non bussò al portoncino giusto; per sentirsi dire che la bicicletta era lì, ma da riparare.
Senza rimprovero alcuno, in assoluto silenzio, proseguimmo, a piedi, verso L’Aquila, dove giungemmo intorno alle otto del mattino. Giusto il tempo di farmi abbracciare da mia madre, di far vedere ai vicini di casa che stavo bene e poi, invece di mandarmi a dormire, mi accompagnò a Santa Giusta per la prima messa della domenica.
Vigliano. Un paese piccolo, fatto di volti, di voci, di suoni, di montagne aride, di pascoli verdi ampi come il cielo, di fontanili dalla copiosa acqua sorgiva. Che se li metti insieme fanno il posto più bello del mondo. Dove io mi rifugio ogni volta che voglio rinascere, anche restando chiuso nel mio studio. Perché i paesi dell’anima superano il tempo e lo spazio per entrarti dentro ovunque tu sia.
Mario Narducci
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Nella foto: la chiesa e la canonica di Vigliano
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