L’ironia corrosiva di Buñuel ha percorso la storia del cinema come un brivido, gli effetti si sono propagati lontano e in fondo lo stesso Almodovar, come altri registi anche non spagnoli di oggi, gli deveno molto. Tornato in Messico dopo “Veridiana”, splendida occasione per umiliare, sulla scena internazionale, l’odiassimo regime franchista, Luis Buñuel, già sensantaduenne, regista senza compromessi anche quando è costretto a lavorare su scala commerciale, fa ritorno al suo primo amore: il surrealismo. E gira “L’Angelo Sterminatore”, una pellicola con un linguaggio profondamente trasgressivo, con avvenimenti e personaggi eternamente in conflitto con le norme sociali a cui sono assoggettati. Scritto dallo stesso Buñuel con Luis Alcoriza, rielaborazione del cinedramma Los naufragos de la calle Providencia, messo in scena da José Bergamín, il film ricevette il Premio Fipresci a Cannes, il Giano d’oro al Festival Latinoamericano di Sestri Levante e, ancora, il premio A. Bazin al Festival di Acapulco. La pellicola, del ’62, terzo appuntamento di “Cinema D’Essai” al Movieplex de L’Aquila, con spettacolo unico alle 18 di martedì 28 settembre, si propone come un dissacrante manifesto antiborghese, al punto da costituire quasi un preludio al successivo “Il fascino discreto della borghesia”. Buñuel attinge a piene mani alle origini surrealiste del proprio cinema per dar vita ad un’opera ricca di invenzioni fantastiche: una graffiante commedia grottesca che precipita ben presto in una dimensione completamente irreale ed onirica, dominata dalle regole dell’assurdo e del non-sense. La vicenda gira intorno a un gruppo di personaggi appartenenti al bel mondo messicano: riuniti tutti quanti in un’elegante villa dopo una serata a teatro, i protagonisti consumano la propria cena fra chiacchiere senza importanza e piccoli flirt. Ma il mattino dopo, per qualche ragione inspiegabile, nessuno riesce a mettere piede fuori dalla casa: ciascuno di loro è prigioniero all’interno del salone, in preda al nervosismo, all’angoscia e alla fame. Quello che si era aperto come un raffinato appuntamento mondano si trasforma così in un autentico incubo ad occhi aperti, vissuto all’interno di uno scenario claustrofobico ed allucinato. Intanto, nella villa si verificano gli eventi più strani: una mano che si aggira sul pavimento, una borsetta da cui spuntano due zampe di gallina, un cadavere nascosto dentro un armadio. Le convenzioni finiscono per cedere il posto ad un crudele gioco al massacro, che in qualche modo allude all’incomprensibilità e al caos che regnano nella civiltà moderna e che contraddistinguono la condizione umana. Fra humor nero e critica sociale, “L’angelo sterminatore” si risolve in un vortice di follia e di delirio che raggiunge il suo climax nel momento in cui nella villa fanno ingresso un gregge di pecore ed un orso, arrivati non si sa da dove. Il surrealismo di Buñuel vi manifesta in tutta la sua ricchezza fantastica. Pur essendo assai precisa l’analisi di classe, si ha il sospetto che in questo verdetto d’impotenza Buñuel alluda a condanne più vaste e vi coinvolga per intero il genere umano nel suo complesso. “El Angel Exterminador” rimane nel novero dei film più interessanti del maestro di Città del Messico, e uno dei massimi capolavori della Settima Arte. Con in più alcune sequenze indimenticabili in classico stile surrealista (si veda il richiamato arrivo dell’orso o la fuga delle pecore nel finale o ancora di più la mano che cammina), con quel confine invisibile e invalicabile che ascia gli spettatori increduli ma anche atterriti. Un thriller che potrebbe sembrare una commedia, ma che in fondo è un horror perché tratta il tema della paura. Una curiosità. Il numero 141 del 25 aprile 2009 di Dylan Dog, scritto da Pasquale Ruju e con disegni di Nicalo Mari, porta lo stesso titolo e si rifà ai temi del film di Buñuel.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento