Moratoria scaduta

E’ scaduta a mezzanotte di ieri la moratoria di 10 mesi  per la costruzione di nuove colonie in Cisgiordania. E mentre il negoziato rischia di andare a picco definitivamente i coloni israeliani festeggiano con deposizione simboliche di pietre, gli Stati Uniti e Abu Mazen chiedono insistentemente di bloccare di nuovo la colonizzazione, affinchè si possa […]

E’ scaduta a mezzanotte di ieri la moratoria di 10 mesi  per la costruzione di nuove colonie in Cisgiordania. E mentre il negoziato rischia di andare a picco definitivamente i coloni israeliani festeggiano con deposizione simboliche di pietre, gli Stati Uniti e Abu Mazen chiedono insistentemente di bloccare di nuovo la colonizzazione, affinchè si possa tornare ad un negoziato davvero capace di incidere. Altrimenti non avrebbe senso. Dal canto suo Netanyahu dice di voler continuare nel negoziato, ma, alla fine, alle sue condizioni, visto che la colonizzazione è ripartita. Sono in molti oggi a scrivere che il governo israeliano anche in questo caso mostra l’incapacità di arrivare alla cessione di una piccola parte di potere porta al fallimento dei più grandi sforzi di pacificazione; oggi la volontà c’era e si toccava con mano, visto che la moratoria aveva parzialmente rasserenato gli animi. Ultimo tassello da considerare: il ruolo di Hamas, che spinge affinchè Abu Mazen lasci il negoziato e si concentri sulla riconciliazione. Benjamin Netanyah ha chiesto al presidente palestinese Mahmoud Abbas di continuare a “negoziare onestamente e in modo celere” per raggiungere un accordo di pace “storico” entro un anno. “Israele è pronto a cercare contatti continui nei prossimi giorni per trovare un modo per continuare i negoziati di pace tra Israele e l’Autorità palestinese”, ha detto in una nota. Il leader israeliano non ha esaudito le richieste del presidente americano Barack Obama di estendere il blocco alle costruzioni e gli Stati Uniti hanno detto nella notte di ieri che cercheranno comunque di facilitare i negoziati nonostante la decisione di Israele. I palestinesi avevano detto che avrebbero lasciato immediatamente i negoziati di pace, sostenendo che gli insediamenti non permetteranno la creazione di uno stato indipendente. Oltre 430.000 ebrei vivono negli oltre 100 insediamenti stabiliti in Cisgiordania e a Gerusalemme est, terre colonizzate da Israele in seguito alla guerra del Medio Oriente del 1967. Il tribunale internazionale dell’Aia ha condannato gli insediamenti, definendoli illegali nonostante le rimostranze israeliane. Per la proroga al blocco degli insediamenti è sceso ancora in campo anche il presidente statunitense Barack Obama, appelli caduti nel vuoto che rappresentano un nuovo smacco per la diplomazia statunitense. Nelle ultime ore è il segretario di Stato Hillary Clinton a riprendere le fila del dialogo, annunciando un incontro con Netanyahu nei prossimi giorni. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, ha detto che l’amministrazione Obama sta facendo pressioni affinché “i colloqui di pace continuino”, ribadendo che gli Stati Uniti si oppongono alla ripresa delle costruzioni negli insediamenti. “La nostra posizione nelle colonie non è cambiata”, ha affermato Crowley. “Restiamo in stretto contatto con entrambe le parti”, ha proseguito il portavoce, “e ci incontreremo ancora nei prossimi giorni. Restiamo concentrati per sull’obiettivo di far avanzare i negoziati verso la soluzione dei due Stati (coesistenti in pace) e incoraggiare azioni costruttive verso questo obiettivo”. Quanto ad Abu Mazen (Mahmud Abbas), prigioniero delle sue ripetute dichiarazioni che i negoziati di pace con Israele ripresi da appena un mese dopo due anni di interruzione, non continueranno “se comincerà anche la costruzione di una sola casa”, sembra dal canto suo avere trovato una possibile via di uscita scegliendo di rinviare il problema al comitato di guida della Lega Araba. Questo, su richiesta di Abu Mazen, si riunirà all’inizio di ottobre (probabilmente il 4) al Cairo per concordare una posizione. Nel frattempo pressoché l’intera galassia politica palestinese, oltre all’opposizione scontata dei movimenti islamici, si è sollevata contro i negoziati senza la proroga. Perfino uno degli esponenti politici più moderati di Al Fatah, come Sufian Abu Zaida, si è espresso in modo apertamente ostile al proseguimento dei colloqui, accusando Israele di malafede. Dicono i palestinesi: condurre negoziati con Israele mentre lo Stato ebraico nel contempo continua a costruire e a ingrandire gli insediamenti è come negoziare sulla spartizione di una pizza mentre una delle parti continua a mangiarla. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), seconda tra le organizzazioni che aderiscono all’Olp, ha annunciato di aver sospeso la sua partecipazione al comitato esecutivo dell’organismo per protestare sia contro i negoziati diretti con Israele sia per il modo in cui le decisioni vengono prese nei fori dell’Olp. Intanto in Israele, scrive il Giornale, accanto alle voci di chi, come il presidente Shimon Peres, esorta a fare di tutto per evitare una crisi che potrebbe essere molto pericolosa, si sono sentite anche le grida dei rappresentanti dei coloni e della destra militante: per loro la moratoria è finita e non sarà mai più ripetuta. “Abbiamo atteso – hanno detto ieri – dieci mesi e da domani mattina riprenderemo a costruire dappertutto”. Come scrive “il Caffè Geopolitico”, si  rischia di diventare ripetitivi quando si cerca di spiegare quali siano le problematiche che dividono, da oltre 60 anni, israeliani e palestinesi. Lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei profughi e la definizione dei confini del futuro stato palestinese. Questo solo per ricordare le tre contrversie di maggiore rilievo. E gli insediamenti? Ed il muro di separazione? E la gestione delle risorse idriche? Anche queste ultime tre questioni non possono assolutamente essere ignorate. Tre questioni che appaiono inoltre strettamente interconnesse. Gli insediamenti sono circondati per buona parte dalla barriera difensiva israeliana: 8 metri di cemento armato continuamente interrotti da torrette di avvistamento e dotati di sensori di movimento. Il muro ha in molti casi, vedi Qalqilya, deliberatamente modificato il proprio percorso per includere falde acquifere ed ampie fette di territorio: in molti casi ben oltre la linea di confine stabilita nel 1967. Non solo. La gran parte degli insediamenti, per non dire tutti, sono costruiti in corrispondenza delle falde acquifere presenti nella West Bank e questo contribuisce ad aggravare la penuria d’acqua presente nei Territori Palestinesi. E se abbiamo visto come insediamenti, acqua e muro siano strettamente interconnessi, non dobbiamo dimenticare le storiche problematiche che spaccano la regione. In primis lo status di Gerusalemme, la quale oggi appare una città israeliana a tutti gli effetti. Proclamata capitale indivisibile dello stato ebraico, la città santa è oggi più che mai considerata parte integrante dello stato israeliano e molto difficilmente verrà fatta alcuna concessione sulla sua condizione. Una città divisa da confini invisibili, ma estremamente tangibili. Inoltre le figure dei due negoziatori sono quanto mai deboli. Il presidente palestinese dovrà fare i conti con le contestazioni delle altre forze politiche palestinesi, Hamas su tutte, le quali si sono già espresse in maniera negativa riguardo alla possibile ripresa delle trattative con il governo israeliano. Le parole di Hamas portano inoltre alla luce la drammatica situazione della Striscia di Gaza, situazione che al momento non sembra però rientrare nelle priorità della Casa Bianca. Quanto al governo israeliano vive anch’esso momenti di grande difficoltà sul piano della coesione interna. Quindi le trattative sono tra due leader deboli ed i cui rapporti non sono mai stati idilliaci. Un rapporto di reciproca sfiducia che non sembra essere in grado di portare alle coraggiose scelte di cui ci sarebbe invece estremamente bisogno.

Carlo Di Stanislao

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