“La vita deve essere vissuta come un gioco” Platone
Chi ci riesce? Probabilmente chi è elevato come Platone, che ha preferito parlare del maestro più che di se stesso.
Il mondo non fa che ingannarci. Ogni volta mostra all’uomo un guadagno e alla fine questo non ha nulla. Possiamo vedere coi nostri occhi che la maggior parte della gente lavora e si affanna per giorni e anni e quando infine va a fare i conti non gli resta in mano nulla. E perfino chi raggiunge la ricchezza viene strappato ad essa. Questa è la regola: non possono convivere. O la ricchezza viene tolta all’uomo o l’uomo è tolto alla sua ricchezza.
Da tutto ciò può salvarci la poesia. Ma esiste oggi ancora la poesia?
Delle varie forme di manifesta decadenza di cui soffre attualmente l’arte poetica, nulla colpisce con maggior violenza la nostra sensibilità quanto il preoccupante declino dell’armoniosità del metro, quella che adornava i versi dei nostri immediati avi.
Un pensatore antico come Dionigi di Alicarnasso e un filosofo moderno come Hegel hanno affermato che la versificazione non è semplicemente un necessario attributo, ma il fondamento stesso della poesia. Hegel, in effetti, pone la metrica al di sopra dell’immaginazione metaforica come essenza della creazione poetica.
Ma oggi esistono solo metafore piatte e sbiadite e la vita si priva anche di questa ricchezza. E sopratutto non esiste più metro…
Come ieri certe opere intellettualistiche e decadentistiche erano la prova patente di un depotenziamento ideologico, oggi certe opere all’insegna dell’erotismo sono la prova di una impotenza o di una deviazione sessuale, e l’una e l’altra sono la riprova di una carenza plenaria e unitaria dell’uomo.
Questa è la triste verità.
Ma esiste un altro tipo di poesia: la poesia di ciò che è a portata di mano, la poesia dell’immediato presente. In questo immediato presente non c’è perfezione, niente si consuma, nulla è finito né definitivo. La materia vibra in modo indicibile, inala il futuro, esala il passato, vive in entrambi eppure da entrambi non è interamente posseduta.
Il vile letterato, quello che sforna “pentole” per il resto della vita, risparmi tempo e ignori questo articolo. Non contiene accenni agli archivi dei manoscritti, ai vezzi da matita blu, né all’innata, perversa pervasività di avverbi e aggettivi. Scrittori che trottate con la penna: via di qua! Questo articolo è per lo scrittore che nutre ambizioni e ideali.
Ricordo che nel 1976 il linguista Tullio De Mauro, di recente scomparso, aveva fatto una ricerca per vedere quante parole conosceva un ginnasiale: il risultato fu circa 1.600. Ripetuto il sondaggio venti anni dopo, il risultato fu che i ginnasiali del 1996 conoscevano dalle 600 alle 700 parole.
Oggi io penso che se la cavino con 300 parole, se non di meno.
È un problema? SI, è un grosso problema, perché, come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare.
E se non si sa pensare non esiste poesia e il gioco della vita si fa molto triste.
E se mancano le basi linguistiche minime grammaticali e semantiche tutto diventa scambio adatto ai social e non nutrimento per lo spirito e il sorriso. L’intelligenza artificiale potrà scrivere usando molte parole, grammaticamente e semanticamente corrette, ma mancheranno almeno due cose: anima e creatività.
Carlo Di Stanislao
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