Nelle sale, in questi giorni, tre buoni film italiani e due pessimi film americani, frutto di una tecnologia ormai ingombrante e pletorica e dalle idee ridotte al lumicino. Partiamo con quello che riteniamo il film più interessante, “La pecora nera”, di Ascanio Celestini, che si mette dietro la macchina da presa (con occhio pasoliniano) per raccontare le vite di coloro che hanno conosciuto l’esperienza nel manicomio. Memorie e storie di chi ha vissuto in manicomio, un viaggio tra la più fervida immaginazione e la concretezza abominevole di paure insormontabili. Così per i suoi precedenti lavori (“Radio clandestina” o “Scemo di guerra”), seguendo il criterio dell’innesto della storia piccola su quella grande, Celestini, dopo la documentazione, opera una vera e propria trasfigurazione, con un linguaggio colto e popolaresco al tempo stesso. Il secondo film che raccomandiamo è “Benvenuti a Sud”, di Luca Maniero, il suo primo lungometraggio girato senza Paolo Genovese, un film girato con mestiere ed interpretato con professionalità, scritto e diretto con indubbia coerenza. Claudio Bisio è bravo e simpatico, non gli è difficile evitare di uscire dai canoni del personaggio tipico che è impegnato a regalare al suo pubblico. Alessandro Siani si rivela non più solo una promessa ma forse l’unico vero erede attuale del grande Massimo Troisi. Angela Finocchiaro si conferma un’indubbia professionista, Valentina Lodovini si mette alla prova in qualcosa di diverso e riesce a dimostrare così anche la sua versatilità. “Benvenuti al Sud” diverte, soprattutto nel primo tempo, soprattutto quando il “gioco” dello script non è ancora abbastanza sfruttato. Questo è l’importante. Quanto conta quindi un discorso critico in questo caso? Poco o forse nulla, come per tanti film. I problemi, se davvero ci sono, vanno cercati altrove. Completa la terna italiana, “La Passione” di Carlo Mazzacurati, rivincita del cinema italiano all’incombenza di quello americano del Festival di Venezia. Anche in sala gli spettatori hanno sorriso alle varie manie del protagonista, un regista che da anni non dirige e che si trova in un paesino fiorentino a rappresentare la passione di Cristo. Quando Gianni Dubois deve andare sul pianerottolo di una casa per telefonare e fare la fila con altri conversatori, il tutto è ironico. Quando si rifugia presso un’affittacamere che con accento nordico accenna ad un sesso estremo, il tutto è ironico. Quando al cellulare con il produttore finge di raccontare la trama del nuovo film, e per trovare uno spunto tesse una storia in base a ciò che gli capita intorno, il tutto è ironico. Anche la crisi esistenziale nel realizzare un film è a suo modo comica, proprio perché favorita dalle contingenze esterne (la penuria di soldi, il timore di essere denunciato dal sindaco del paese).Ma perché lui è in crisi: solo per i soldi. È possibile che la crisi del cinema italiano sia solo causata dalla mancanza di ispirazione di un regista? Ed è possibile che questa difficoltà nasca solo da contingenze materiali? La crisi di Gianni Dubois è in definitiva la stessa di Guido in 8 e ½ di Federico Fellini, ripresa nel recente musical di Bob Marshall. a in Fellini non un evento economico minava l’ispirazione: insomma non era nella penuria sul conto corrente. Era altro, era l’amante, il ricordo del passato, la difficoltà di staccarsi dalla madre. Visto con la sagacia della crisi economica, quasi a sottolineare che la cattiva congiuntura di capitali non porta a girare un film. E solo con i mezzi umili, come quelli trovati per la rappresentazione della Passione di Cristo nella festa di paese, si esce da questa impasse. Fuori di metafora: il cinema deve tornare a raccontare con umiltà, con un pauperismo creativo in sintonia con i tempi. E veniamo ai due americani che non ci hanno convinto.- Il primo è “Inception” di Christopher Nolan, che dice essere il progetto di una vita, a cui a lavorato per anni, realizzando prima “Memento” poi “Insomnia” poi i due Batman. Di Caprio è bravo ma il film decisamente irrisolto. Il tutto inserito nell’ambigua cornice di quella incapacità di distinguere tra apparenza e realtà che è propria di ogni essere umano quando, nel sonno, crea mondi tanto inesistenti quanto assolutamente ‘reali’. Nolan si concede anche ammiccamenti mitologici (Arianna) e cinefili (ad esempio scegliere “Je ne regrette rien” come canzone in un film che vede presente Marion Cotillard non dev’essere stato propriamente casuale) e lo fa esagerando, decisamente. Ancora più deludente, l’opera in 3D di M. Night Shyamalan, con Noah Ringer, Dev Patel, Nicola Peltz, Jackson Rathbone, Shaun Tou, storia di un giovane bonzo incapace di accettare il suo destino di messia, realizzato secondo la mitologia pop di un cartone animato figlio della globalizzazione, dove le filosofie orientali confluiscono nello schema del romanzo di formazione occidentale. La matrice in questione si chiama Avatar (dal nome dell’incarnazione della divinità induista) e, curiosamente, è proprio nel tentativo di accostarsi all’estetica tecnocratica dell’omonimo film di James Cameron che L’ultimo dominatore espone i propri difetti. Difetti relativi agli eccessi di zelo di un autore impaurito dalle nuove tecnologie più che da fantasmi, alieni o forze oscure della natura; incapace di opporsi a un uso posticcio e autolesionista della stereoscopia o di tagliare il cordone ombelicale dei rimandi obbligati al Signore degli anelli.
Carlo Di Stanislao
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