In questo secondo anno di gestione Amelio, il Torino Film Festival punta sull’horror , tema al centro della sezione “Ritratto confidenziale”, che, lo scorso anno, vide l’affermarsi del danese e talentuosissimo Nicolas Winding Refn. Ai capi opposti delle scelte orrorifiche torinesi, possono essere piazzati due film: da un lato il classicismo esplicito di The Ward di John Carpenter, dall’altra le derive più cross-mediali e dissacratorie del Suck diretto, sc ritto e interpretato dal giovane canadese Rob Stefaniuk. Il ritorno alla regia cinematografica di Carpenter, a nove anni di distanza da Fantasmi da Marte, è stato sicuramente uno degli eventi più attesi di questo TFF 2010, a conferma dell’interesse e della passione che il nome del regista è ancora in grado di suscitare. E The Ward è un film da considerare tanto più riuscito quanto più apparentemente lontano da ogni forma di “carpenterismo” così come viene normalmente inteso. Basato su una sceneggiatura firmata dagli sconosciuti fratelli Rasmussen, The Ward è ambientato nei primi anni Sessanta e vede l’aspirante scream queen Amber Heard, nei panni di una giovane che viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico, senza avere memoria di nulla se non quella di aver dato fuoco ad una casa. La ragazza si ritroverà ad avere a che fare con alcune altre pazienti, quattro ragazze sue coetanee, ma soprattutto con una minaccia misteriosa e terrificante che sembra volerle uccidere l’una dopo l’altra. Diverso è il discorso portato invece avanti da Suck, storia di una rock-band di scarsissimo successo che vede le cose cambiare quando la bassista, interpretata da Jessica Paré, viene vampirizzata e riesce ad ammaliare il pubblico. Di qui al chiedere di diventare non-morti da parte degli altri tre membri del gruppo pur di inseguire il successo, il passo è breve. I meriti di un film come Suck stanno tutti nella capacità di trovare i giusti equilibri tra i generi e nelle diverse parti della narrazione, di infarcire con creatività una sceneggiatura semplice di battute e situazioni che la rendono brillante e innegabilmente divertente, a tratti esilarante. Altro filone che nel corso degli ultimi anni ha costituito una parte sempre importante e solida del programma del TFF, è sicuramente quello del cinema indipendente americano, nelle sue più diverse declinazioni. Ed è stato ad esempio il caso quest’anno di due titoli molto diversi fra loro, come l’atteso esordio dietro la macchina da presa di Philip Seymour Hoffman, Jack Goes Boating, o l’ultra indie adolescenziale The Mith of the American Sleepover, diretto dal giovane ed esordiente David Robert Mitchell. Quest’ultimo ci pare particolarmente interessante: un’opera prima sospesa nello spazio e nel tempo, caratterizzata da una mesmerizzante e morbida fluidità amniotica, carica di una pacificata e serena malinconia che non diventa mai rimpianto nostalgico né esaltazione acritica di un momento che è e deve essere di trasformazione e passaggio. E mentre il Festival è in pieno svolgimento e la giuria, presieduta d aMarco Bellocchio e composta da Barbora Bobulova, Michel Ciment, Helmut Grasser e Joe R. Lansdale, è al lavoro, giunge la notizia del suicidio di Monicelli. Giuseppe Bertolucci, che al Torino Film Festival ha appena ricevuto, insieme con l’esercente cinematografico Lorenzo Ventavoli e con Silvia Toso, ideatrice della trasmissione “Hollywood Party”, il premio “Maria Adriana Prolo”, intitolato alla fondatrice del Museo del Cinema, è impietrito e stenta a crederci, come tutto il mondo del cinema, riunito sotto la Mole. Monicelli e Torino erano legati da un rapporto speciale e in quella città il toscanaccio aveva girato tre film. Uno di questi, poco conosciuto ma molto bello, sarà proiettato oggi, aperto a tutti ed in forma gratuita, nella grande sala del Cinema Ambrosia 1, con l’organizzazione di Alberto Barbera, direttore del Museo del Cinema. “ I compagni”, girato nel 1963, con Marcello Mastroianni, è un piccolo, amaro capolavoro sulle prime lotte sindacali del secolo scorso, un bel film che fu un fiasco al botteghino e costituì, forse, il dispiacere più grande nella lunga carriera del grande Autore. Bene hanno fatto a Torino a scegliere proprio questo film, poiché il dramma non è solo contrappunto, è tentazione costante nel cinema di Monicelli, che lascia libero sfogo alla sua vena più amara nei momenti di incertezza e confusione sociale. Pensiamo a molti film degli anni ’70, a Viaggio con Anita, Caro Michele, Un borghese piccolo piccolo, gli ultimi due tratti, forse non a caso, da romanzi della Ginzburg e di Cerami. Come se nello smarrimento di quegli anni servissero punti d’appoggio esterni e Monicelli, in attesa di risorgere dalle proprie ceneri con Speriamo che sia femmina, sentisse il bisogno di condividere i dubbi e le debolezze di un cinema nel quale si è sempre identificato. Senza reticenze, nel bene e nel male.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento