Blake Edwards,88 anni, è morto ieri a Brentwood, in California. Di lui si è detto spesso che e’ stato prima un artigiano che un artista e che la venerazione ottenuta in Europa (specie da parte della critica italiana) non coincide con i semplici attestati di stima della tribu’ americana del cinema. Si era cambiato il nome (il vero era William Blake McEdwards) perché, diceva, “non posso competere col suo genio” ed era nato a Tulsa, il 26 luglio del 1922, rampollo della buona borghesia statunitense, con un padre regista teatrale. Debuttò al cinema dalla porta principale, nemmeno trentenne. Fu la radio a dargli il primo palcoscenico come autore di testi che talora metteva direttamente in scena e, dopo una parentesi televisiva, negli anni ’50, arrivò ad Hollywood, con un contratto da autore con la Columbia. Il debutto dietro la macchina da presa nel 1955, con un musical: “Quando la ragazza è bella” ed il primo successo quattro anni dopo ”Operazione sottoveste”, vero trionfo al box office, con Cary Grant (che mal sopporto il suo piglio decisionista) ed un giovanissimo Jack Lemmon, da allora amico di una vita. Nel film c’e’ il sorriso, l’ammiccamento, l’uso disinvolto dei generi narrativi (la commedia e il film di guerra); manca pero’ ancora quella personalita’ inconfondibile che Edwards sfodera due anni dopo in ”Colazione da Tiffany”. Dopo un giallo con Glenn Ford e un dramma sociale con Jack Lemmon (”I giorni del vino e delle rose”), Edwards ottiene di rischiare in proprio con un suo copione che rivoluziona i canoni della commedia: intinge la penna nel giallo, coniuga ritmi scatenati alla Fratelli Marx con humour britannico alla David Niven, arruola un cast internazionale e porta la sua cinepresa nei luoghi piu’ esclusivi, da Cortina alla Costa Azzurra: sta nascendo nel 1963 il miracolo della ”Pantera Rosa’. Il successo e’ tale che il regista deve ritoccare in gran fretta un altro copione che teneva nel cassetto, ”Uno sparo nel buio” per farne un sequel tutto basato sul personaggio di Clouseau. Nasce una saga la cui paternita’ sara’ sempre oggetto di risse furibonde tra il regista e l’attore, entrambi convinti di avere il copyright. Nel 1968 fu il disastro commerciale di ”Hollywood Party” del 1968 a produrre una frattura insanabile tra il regista e gli studios di Hollywood. Infuriato per i troppi compromessi che aveva accettato in nome dell’adorata moglie (Juliew Andrews), Edwards lascia Hollywood e segue la consorte in Inghilterra per un dorato esilio che durera’ dieci anni. Quando sembra ormai un ferrovecchio per la Mecca del Cinema, l’autore di ”Colazione da Tiffany” si prende una clamorosa rivincita dirigendo la top model dei primi anni ’80 Bo Derek, al fianco di Dudley Moore in ”10”. E’ ancora un trionfo che permette al regista di vendicarsi di Hollywood con un ritratto al vetriolo, l’autobiografico ”S.O.B.” (1981) e lo portera’, l’anno successivo, a trionfare insieme a Julie Andrews nel suo capolavoro assoluto ”Victor, Victoria”. Ma siamo ormai al crepuscolo punteggiato di opere personali come ”Cosi’ e’ la vita” con Jack Lemmon e ”Appuntamento al buio” del 1987. Fallisce l’idea di ridar vita a Clouseau dopo la morte di Peter Sellers scovando in Roberto Benigni un improbabile ”Figlio della Pantera Rosa”, ma fioriscono invece gli allori, dalla Legion d’onore in occasione della retrospettiva al Festival di Cannes (1992) all’unico Oscar (alla carriera) consegnatogli nel 2004 nel corso di una esilarante cerimonia in cui il regista arriva in scena con una carrozzella che manda a infrangersi sulle pareti del teatro. Per me il suo film più bello resta “Victor Victoria”, che gli valse sette nomination agli Oscar (dicevamo che invece l’unico Oscar lo ebbe per la Carriera, nel 2004), una commedia brillante molto vicina al musical, è il remake di un omonimo, non meno riuscito film tedesco del 1933 di Rheinhold Schünzel. Il film ha avuto un fortunatissimo riscontro di pubblico, sfruttando – grazie ad una sceneggiatura intelligente e briosa e alla regia di Blake Edwards che si esprime al meglio nelle commedie – il filone del travestitismo, generalmente molto redditizio nel cinema. Un successo meritatissimo, visto che è esaltante, con innumerevoli gag e gustosi equivoci. Senza dire che mostra con raffinatezza una Parigi scintillante, in cui il mondo gay è visto con simpatia, soprattutto grazie al personaggio di Toddy, dalla pungente autoironia, interpretato magnificamente da Robert Preston. Ma, al di là di tutto ciò, il film è in realtà ben più complesso, come spesso accadere in Edwards. La trama ha il suo fulcro nella finzione, dovuta al piano elaborato dall’unico vero gay, Toddy (almeno fino a quando Squash non si rivelerà): il travestimento di Victoria riesce a creare per tutta la vicenda un senso di instabilità, che alla lunga confonde i limiti impalpabili tra ciò che è vero e ciò che è falso. In apparenza, Victoria sembra dominare con sicurezza la sua doppia identità – è Victor sul palcoscenico o in pubblico, Victoria nell’intimità e dietro le quinte – eppure la perfetta riuscita del suo inganno deve molto al fatto che si trova perfettamente a proprio agio dietro quella maschera che, almeno un po’, intacca la sua personalità quanto ritorna ad essere se stessa. La cosa non finisce qui: King, pur nella sua ostentata virilità, è costretto, prima di scoprire l’inganno, ad ammettere a se stesso di essersi innamorato di un uomo (come del resto crede Norma) e non riesce proprio a farsene un problema. L’intero film – ordito sulla doppia opposizione apparenza/essenza e vita/finzione scenica – tende dunque a mostrare come non esistano polarità nette; mettendo in dubbio i ruoli prefissati della sessualità, si interroga, con garbo ed ironia, sulla labilità dei suoi confini. In sostanza, toglie le maschere ma confonde ancor più sulle identità. Gli attori sono eccellenti, soprattutto Julie Andrews, splendida anche quando canta. Si tratta del terzo ed ultim, film (dopo “10” e “S.O.B.”), in cui l’attrice è diretta dal marito, sposato nel 1969 e con cui ha vissuto sino a ieri, fra nipoti e pronipoti, nelle case di Malibu, New York e Gstaad in Svizzera. Tornando a Victor/Victoria, nel 1995 Edwards dirige la moglie nell’adattamento teatrale, con un ritorno al palcoscenico dopo un’assenza di 35 anni. Lo spettacolo è un grosso successo di pubblico, ma la critica è meno convinta. L’entusiasmo nei confronti della protagonista è unanime ma la regia lascia perplessi i più che la definiscono troppo cinematografica. Quando vengono annunciate le nominations ai premi Tony, Victor/Victoria ne riceve solo una per la migliore attrice protagonista. Il fatto viene visto dalla compagnia come un attacco personale da parte del mondo del teatro newyorkese all’Edwards regista di Hollywood e Julie Andrews decide di compiere un atto fino a oggi unico nella storia del premio: durante una speciale conferenza stampa al termine di una replica, rifiuta la nomination (la sua terza); una decisione che finisce sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo. Tutto ciò non fa che dare maggiore pubblicità allo show che oramai è tutto esaurito per anni a venire. Il successo però viene improvvisamente interrotto da un evento drammatico: verso la fine del suo impegno nello spettacolo, nel 1997, Julie Andrews viene ricoverata in ospedale per quella che avrebbe dovuto essere una semplice operazione chirurgica alla gola (Liza Minnelli amichevolmente la sostituisce in Victor/Victoria). Un errore durante l’operazione le lascia sulle corde vocali delle cicatrici permanenti che, con grande disperazione della stessa Andrews e dei suoi fans, la privano per sempre della sua straordinaria voce di cantante. Il prossimo 13 febbraio verranno consegnati negli Stati Uniti i premi Grammy per il 2010. Julie Andrews e la figlia hanno ricevuto una nomination per il loro audio-libro (miglior album di “spoken word” per bambini) Julie Andrews’ Collection Of Poems, Songs, And Lullabies. Sono certo che William Blake farà il tifo e con qualche imprevista battuta sarà minizzare la sconfitta o ironizzare sulla vittoria.
Carlo Di Stanislao
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