Esordio “fuori casa”, stasera, alle 21,15, al Teatro Cicconi di Sant’Elpidio a Mare, di “Scene da un matrimonio”, adattamento di Alessandro D’Alatri del capolavoro cinematografico di Ingmar Bergman e secondo appuntamento del cartellone di “prosa e danza”, realizzato dal Comune marchigiano e dall’Amat, con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Regione Marche. Prima produzione post-sismica del TSA, si tratta di un dramma a due voci su una crisi di coppia: Jhoan e Marianne, due coniugi sposati ormai da dieci anni, avviati lungo il crinale del lento ma inesorabile crollo del loro progetto comune, il matrimonio. Con Daniele Pecci e Federica Di Martino, D’Alatri tenta di rendere quella corrida (o odissea) che è il matrimonio, una esperienza purgatoriale, con qualche speranza di sussistenza e riuscita. Una curiosità: la versione originale, sempre di Bergman, era uno sceneggiato tv in 6 “scene” della durata di 294 minuti: (“Innocenza e panico”; “L’arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto”; “Paola”; “Valle di lacrime”; “Gli analfabeti”; “Nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo”); che tra “sussurri e grida, in altalena tra tenerezza e violenza, in bilico tra paradiso (illusorio) e inferno (autentico), raccontava la difficoltà della vita coniugale. Da quando si può desumere dalle dichiarazioni di Alatri, la sua riduzione teatrale contamina Bergman con Revolutionary Road di Richard Yates, mandato in libreria dalla Minimum Fax per la collana Minimum Classics nel 2003, 42 anni dopo la sua pubblicazione negli USA, prendendo da questo capolavoro di Yates, l’acutezza psicologica, la straordinaria capacità analitica che coglie ogni minimo dettaglio e gli dà significato, l’ironia feroce che scava al di là delle superfici sociali, come di quelle personali e, in sintesi l’eccezionale capacità di narrare in una splendida potenza di linguaggi. Tornando a Bergman, come ha scritto 4 anni fa Renato Palazzi, al contrario di quanto molti ritengono, si potrebbe paradossalmente affermare che egli sia stato soprattutto un insigne regista teatrale arrivato al successo internazionale attraverso il cinema, più che un celebrato cineasta al quale nel corso della sua carriera è anche capitato di dedicarsi al teatro. Pochi artisti del Novecento hanno comunque saputo e voluto intrecciare così strettamente i due linguaggi: basti pensare che gli attori dei suoi spettacoli erano in genere gli stessi delle pellicole più importanti. E che proprio da una sua opera drammaturgica, Pittura su legno, era nato un capolavoro dello schermo come Il settimo sigillo. Certamente va detto che il suo autore prediletto fu Strindberg, che partendo da posizioni sostanzialmente naturalistiche, portava i tormenti emotivi e i rovelli mentali dei personaggi rappresentati a un tale stato di febbrile esasperazione da rivelare sempre, sia alla ribalta che nei film, una vena allucinata, sottilmente visionaria. Si cita l’autore svedese – di cui Bergan ha allestito, anche a più riprese, Il pellicano, La sonata degli spettri, Il sogno, Verso Damasco, Danza di morte e l’esemplare Signorina Julie – perché proprio affrontando i suoi drammi, incentrati per lo più sul torturante rapporto tra uomo e donna in tutte le possibili varianti, egli ha raggiunto una sorta di ferrea perfezione. Ma l’intero panorama del teatro nordico, con Ibsen ovviamente in primo piano, ha offerto spunti alla sua vocazione introspettiva. E gli altri autori con cui si è misurato – da Tennesse Williams a Edward Albee a Eugene O’Neill – sono tra quelli che danno voce, non a caso, a passioni contorte, laceranti. Tuttavia, a ben vedere, per capire fino in fondo la sostanza teatrale di Bergman, va visto e rivisto l’allestimento della Madame de Sade di Mishima, ritratto di una donna che per decenni attende il ritorno del marito perverso e traditore, e quando infine egli ritorna davvero “sceglie” di non riconoscerlo. Proprio questo spettacolo, che per più di tre ore sovrapponeva in un rituale elaboratissimo ma fondamentalmente immobile le ciprie e le parrucche del formalismo settecentesco francese con gli alti manierismi del teatro Nô e della cultura classica giapponese, è per molti aspetti indicativo dello stile registico di Bergman: un talento non comune nel dirigere gli attori – e specialmente le attrici – ricavando dalla loro recitazione le più minute sfumature di senso, una spietata lucidità nella radiografia dei sentimenti, una straordinaria capacità di elevare certi oscuri soprassalti dell’anima a metafore assolute della condizione umana. Aspettando la “prima interna” di giovedì 13, nel ridotto del nostro teatro, mi auguro che Alatri abbia tenuto conto di tutto questo e dell’altro ancora che corre nel sangue e nel tessuto del teatro secondo Bergman.
Carlo Di Stanislao
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