Maria Sandra Mariani, cinquantatreenne di S. Casciano (Firenze), è stata rapita il 2 febbraio scorso, mentre effettuava una escursione nell’area de Sahara algerino, presso Djanet, al confine col Niger. È il primo rapimento ad essere compiuto nel paese dal 2003, anche se, secondo esperti della regione, la donna potrebbe essere già stata portata fuori dal territorio algerino, in Niger e poi in Mali. Fonti della sicurezza algerina si dicono certe che il rapimento è opera di Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi). Secondo una nota diramata ieri dalla Farnesina e istruita sulla scorta di dati forniti dalla gendarmeria locale, il rapimento è avvenuto alle ore 18.30 del 2 febbraio, mentre la cittadina italiana si trovava in compagnia di tre algerini, componenti di un’escursione organizzata da un’agenzia di viaggi. I sequestratori avrebbero lasciato andare gli accompagnatori e si sarebbero allontanati con la donna. Da fonti investigative, le tre persone che erano con la signora Mariani sono la guida, l’autista e un cuoco. La loro posizione è al vaglio della polizia locale. Fonti investigative italiane riferiscono che non sarebbe giunta ancora alcuna richiesta di riscatto. Maria Sandra Mariani si trovava ad Algeri per un soggiorno di circa un mese, iniziato lo scorso 20 gennaio. I parenti della rapita hanno detto che ella portava anche “aiuti alle popolazioni del deserto algerino” e che l’ultima telefonata risale a cinque giorni fa. Secondo fonti dell’esercito, che controlla la regione del Sahara, la donna sarebbe stata prelevata da un gruppo di 14 uomini a bordo di due pick-up. I militari avrebbero avviato le ricerche che, per il momento, non hanno dato alcun esito. Per i militari, sarebbero stati i rapitori a permettere a Maria Sandra Mariani di usare un telefono satellitare per chiamare il suo tour operator, che avrebbe poi denunciato il sequestro alle autorità locali. Ma l’evento, cioè la telefonata, è stato smentito dall’agenzia di viaggi. Diversa la versione del giornale algerino Ennahar. La donna, scrive il quotidiano, si era allontanata dal gruppo per comprare del cibo, quando è stata intercettata dai terroristi che viaggiavano a bordo di un fuori strada. Il sequestro è avvenuto mentre Maria Sandra Mariani stava ritornando alla comitiva, in compagnia della guida e di un autista che sono stati subito rilasciati. Fonti “esperte della regione”, sentite dall’Ansa, affermano che due guide che accompagnavano la donna sono attualmente “nelle mani delle forze di sicurezza algerine” perché potrebbero “essere implicate nel sequestro”. Il braccio nordafricano della rete terroristica di Bin Laden si è reso responsabile di sequestri e attentati tra Mali, Mauritania e Algeria e non è la prima volta che un italiano viene sequestrato nella fascia sahelo sahariana, teatro negli ultimi tre anni di numerosi rapimenti di cittadini occidentali. Un vero e proprio business che ha portato nelle casse di Al Qaida circa 50 Il gruppo rivendicò anche il rapimento dell’italiano Sergio Cicala e della moglie Philomene, catturati in Mauritania nel dicembre 2009 e liberati quattro mesi dopo, mentre è di poche settimane fa l’ultimo drammatico episodio: due cittadini francesi, Vincent Delory e Antoine de Leocour, sequestrati in un ristorante di Niamey, vengono uccisi durante un tentativo per liberarli. Al Qaida per il Maghreb islamico (Aqmi), è una organizzazione eversiva nata nel gennaio 2007, dall’algerino Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (Gspc), che a sua volta alla fine degli anni ’90 raccolse l’eredità del sanguinario Gruppo islamico armato (Gia), L’organizzazione è guidata da Abu Mussab Abdel Wadud ed è responsabile di sanguinosi attentati in Algeria. Il gruppo, inoltre, ha, dal 2009, diradato gli attacchi per intensificare il “business” dei sequestri. Continuano intanto le rivolte e le manifestazioni nel Nord-Africa, con un clima teso in Algeria, Tunisia, Siria e Giordania ed incandescente in Egitto. E già da ora il mondo occidentale si chiede quale impatto queste rivolte avranno sull’economia occidentale. Le proteste che da settimane stanno attraversando tutto il Nord Africa hanno riportato bruscamente l’attenzione sulla situazione politica dei paesi arabi. Se è certamente prematuro parlare di una rivoluzione mediorientale, come negli ultimi giorni hanno ripetuto molti analisti, è sicuramente vero che per i paesi coinvolti si potrebbe trattare dell’inizio di un lento e graduale processo di trasformazione: un cambiamento radicale, non più guidato dalla religione ma da una nuova consapevolezza politica e democratica. L’Egitto, situato alla frontiera occidentale d’Israele, è crocevia ineludibile tra il possibile conflitto e l’assenza di guerre regionali; è un Paese cerniera che, per il suo peso specifico, risulta decisivo per qualunque scenario si voglia profilare. E proprio per anestetizzare i possibili contraccolpi che la crisi egiziana potrebbe generare nello scacchiere mediorientale, le cancellerie occidentali stanno correndo ai ripari invitando, né più né meno, Mubarak a lasciare il potere. Quanto alla Siria, Paese governato dal 1963 dal partito Ba’ath, che rappresenta la maggioranza sunnita, ha una costituzione che garantisce libertà di culto, ma il presidente deve essere per forza musulmano. Inoltre l’attuale presidente, Bashar al-Assad, ha sviluppato un regime molto autoritario, che ha sempre esercitato forti censure e tollerato a fatica qualsiasi forma di protesta. La Siria, poi, non ha mai riconosciuto l’annessione israeliana e fa della restituzione del Golan la condizione necessaria per la stipula di un trattato di pace. Un’altra disputa territoriale è in corso da molti anni con la Turchia per la provincia di Hatay, il cui capoluogo è Antiochia, che fu ceduta alla Turchia nel 1939 quando la Siria era ancora sotto una specie di protettorato francese. In ottimi rapporti con l’Iran, il governo di Damasco ha sempre mantenuto rapporti stabili anche con Hezbollah in Libano e con Hamas nei Territori Palestinesi ed è stato più volte accusato di avere ucciso i suoi avversari politici. A differenza dell’Egitto, che nel corso del tempo ha sviluppato una relazione molto proficua con gli Stati Uniti, la Siria ha sempre avuto rapporti molto tesi con Washington. Durante la recente crisi politica in Libano è stata più volte accusata di un possibile coinvolgimento – non ancora dimostrato – nella morte del presidente Rafiq Hariri, ucciso nel 2006. La reazione della Siria alla crisi in Egitto è considerata politicamente molto importante per i nuovi equilibri mediorientali. L’influenza di Damasco è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, man mano che il consolidarsi dei suoi rapporti con l’Iran e con organizzazioni come Hezbollah e Hamas gli hanno aperto la strada per una rinnovata influenza in Libano, Palestina e Iraq. Negli ultimi anni Washington ha ripetutamente accusato Damasco di rifornire illegalmente Hezbollah di armi, tra cui alcuni missili a lunga gittata che potrebbero raggiungere lo stesso Israele, e ha per questo deciso di adottare sanzioni economiche contro la Siria. Assad continua a respingere le accuse, ma ribadisce anche che non acconsentirà mai alla richiesta delle Nazioni Unite di lasciare che gli osservatori dell’Agenzia per l’Energia Atomica raccolgano informazioni sul proprio programma nucleare. Passando ad un altro Paese, di cui si parla molto poco, cresce in Marocco il nervosismo delle autorità conferma il sospetto che la monarchia alauita stia iniziando a temere seriamente per il suo futuro. La notizia di uno spostamento di truppe in corso dal Sahara occidentale verso Rabat e Casablanca, data da Tve, l’emittente pubblica spagnola, ha fatto andare su tutte le furie il governo marocchino. Il ministro degli Esteri ha convocato l’ambasciatore di Zapatero e dopo una fitta serie di telefonate con Madrid, ha ottenuto quel che voleva: la responsabile della diplomazia spagnola, Trinidad Jiménez, preoccupata dalla prospettiva di una crisi al buio con il suo scomodo ma importante alleato maghrebino, ha elogiato pubblicamente le “riforme democratiche” realizzate dal Marocco che, a suo dire, non correrebbe i rischi dei regimi tunisino ed egiziano. Lo stesso re re Mohammed VI, partito all’improvviso la settimana scorsa per la Francia, per un viaggio che doveva restare segreto se non fosse stato rivelato su Facebook dal giornalista Ali Lmrabet, a cui il regime ha proibito per dieci anni di scrivere sulla stampa marocchina. In teoria, si sarebbe trattato di un breve soggiorno di piacere nel suo castello di Betz. In realtà, il sovrano si sarebbe riunito con Nicolas Sarkozy per analizzare le conseguenze di una possibile crisi. E in effetti proprio in quei giorni il presidente francese, mentre Barack Obama annunciava la determinazione americana a “difendere i diritti umani in tutto il mondo”, si è affrettato a concordare con Angela Merkel e David Cameron una dichiarazione in cui si faceva riferimento solo ai “diritti del popolo egiziano”. E mentre lunedì, nelle strade di Rabat, si assisteva già alle prime manifestazioni di piazza, per il momento solo anti-Mubarak, in un’intervista al quotidiano El País il principe Mulay Hicham, cugino di Mohammed VI e terzo nella linea di successione al trono alauita, assicurava senza mezzi termini che “il Marocco non sarà l’eccezione”. Inoltre, titolano molto giornali stranieri, il virus egiziano arriva anche in Giordania, dove l’onda sismica che ha spedito Ben Ali a pedate nel triste esilio del Golfo, ha causato inconfessate paure nella corte e, all’ombra dei due minareti della moschea in stile ottomano, fatta costruire con pietre bianche e rosa da re Abdallah I all’inizio del secolo scorso, la gente grida slogan e fa garrire al vento bandiere colorate. Come venerdì scorso e quello ancora prima, la folla riunita ad Al Husseini per la preghiera del venerdì non si scioglie, anzi si gonfia fino a invadere le strade vicine. Una fiumana di qualche migliaio di persone, che, come nei due venerdì scorsi, è scesa per le vie del centro, sorvegliata da gendarmi in assetto di guerra. Mentre il vicino Libano, con tutti i suoi problemi, i vanta ancora buoni risultati economici, la Giordania segna quest’anno un deficit record di due miliardi con un’inflazione al 6,1 per cento, il 12 per cento di disoccupazione e il 25 di povertà. E questo agita fortemente gli animi. E, ancora, Ali Abdallah Saleh, presidente dello Yemen, ripete alle folle che vogliono cacciarlo dopo 33 anni di corrotto dominio, lo stanco mantra dei suoi colleghi nordafricani: noi non siamo la Tunisia, noi siamo democratici, senza convincere nessuno. Scrive su La Stampa l’inviato Claudio Gallo, che guardando questo quadro brulicante come se avesse un senso unico, ci si accorge di un fatto lampante: il naufragio della politica “araba” americana ed il grave stato di agitazione del Maghreb. Giorni fa, un giornale della Tunisia “liberata”, consigliava a Saad Hariri maggior pragmatismo nel gestire la crisi che sta portando a un governo sostenuto da Hezbollah. Il terremoto nordafricano sta spalancando la strada a un nuovo modo di pensare nel mondo arabo, ma non si capiscono bene, ancora, i connotati di questo nuovo pensiero, poiché il puzzle è ancora troppo incompleto. Un dato è certo: il 14 febbraio prossimo, nel Bahrain, l’opposizione ha proclamato il suo giorno della rabbia e nello stesso giorno Saad Hariri dovrebbe portare i suoi sunniti in piazza. Vedremo in progressione, pertanto, quale piega prenderanno le cose, considerando che ad un passo da questa instabile regione c’è proprio in Nostro Stivale. Fabrizio Cesari, citando un detto arabo che recita: ““non c’è pace senza la Siria e non c’è guerra senza l’Egitto” , ricorda che se Damasco è in grado di destabilizzare il quadro regionale con il suo peso politico, Il Cairo è indispensabile per poter consentire agli arabi qualunque avventura militare. Il fatto che dalla Guerra del Kippur in poi, i Paesi arabi non abbiano mai più tentato forzature militari anti-israeliane, vista la bruciante e rapidissima sconfitta subìta ad opera delle truppe di Tel Aviv, non cambia comunque la percezione generale che il detto arabo ben riassume. La Casa Bianca crede che per ridurre il rischio di esplosione generalizzata in tutta l’area, che potrebbe portare il Medio Oriente sull’orlo dell’ingovernabilità, serva un’altra politica e, dunque, anche un’altra immagine degli stessi USA presso i Paesi arabi. Washington ritiene che il progressivo reinserimento siriano nel gioco mediorientale, le pressioni ma anche il dialogo con l’Iran, la soluzione del conflitto politico libanese e la moderazione d’Israele nella politica degli insediamenti debbano esser parte dello stesso progetto di controllo dell’area e che questa non possa rischiare di subire contraccolpi d’instabilità politica che, come si è visto, sono difficili da prevedere all’inizio e ancor di più nella loro ricaduta finale. Cambiare tutto per non cambiare niente, ma, forse, questo non sarà possibile, a causa di spinte popolari dilaganti ed ormai incontenibili. Sono in molti infatti a sostenere che, o la rivolta in tutto il Maghreb trova un suo sbocco politico liberale, o rischia di essere solo il primo momento della rivoluzione che verrà. Il Maghreb (in arabo ألمغزب al-Maghrib “Il tramonto”, perché situato nella parte più occidentale dei domini islamici) è l’area più a ovest del Nordafrica, afgfacciata sul mar Mediterraneo e sull’Oceano Atlantico, di religione prevalentemente islamica e con una economia relativamente florida, anche per i rapporti con l’Unione Europea, ma con una crescita incontrollata della popolazione, che ha portato ad una sovrappopolazione e ad una conseguente massiccia emigrazione, per lo più clandestina, verso i principali paesi europei.
Carlo Di Stanislao
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