Dopo la Tunisia e l’Egitto, è principalmente in Libia che il fuoco della rivolta in Nord-Africa è divenuto un incendio devastante. Secondo l’ultimo bilancio fornito da Human Rights Watch e diramato da Adn-Kronos, è di 84 il numero dei morti nelle manifestazioni degli ultimi tre giorni, con migliaia di persone scese in piazza per protestare contro il quarantennale regime di Muammar Gheddafi. Bloccato da oggi il segnale di Al Jazeera nel Paese ed oscurata per intero la rete internet. Secondo il vicedirettore di Hrw per Medioriente e Africa settentrionale, Joe Stork, “le forze della sicurezza di Gheddafi hanno aperto il fuoco contro i civili e ne hanno uccisi a decine sono perché chiedevano un cambiamento”. Secondo fonti mediche locali le forze della sicurezza hanno ucciso almeno 70 manifestanti a Bengasi, seconda città della Libia, come riferisce al Jazeera, citando un medico locale che ha visto i corpi nel principale ospedale cittadino. Oggi Bengasi si è risvegliata in una situazione di calma irreale dopo che nei giorni scorsi sono stati incendiate tutte le sedi della polizia. Secondo quanto riferisce l’attivista locale Ammar Senoussi ad ‘al-Jazeera’, in queste ore tutti i negozi della città sono chiusi e non si vedono poliziotti per le strade. Ieri mattina inoltre sono stati liberati tutti i detenuti del carcere locale e la città sembra abbandonata a se stessa. Tuttavia si prevedono in giornata nuove proteste in città anche se l’assenza della sicurezza lascia intravedere la possibilità che si verifichino furti e razzie simili a quelli visti in Tunisia e in Egitto nelle giornate della rivolta. Il sito online del quotidiano “Oea” di Seif Islam, figlio di Gheddafi, afferma che sono 41 dall’inizio delle proteste, che non si fermano: una battaglia furibonda con una quindicina di vittime (tra cui due poliziotti impiccati) è divampata a Beida, città a 200 chilometri a nordest di Bengasi, capitale della Cirenaica, occupata dai ribelli e ora sotto assedio. La Cirenaica è da sempre una spina nel fianco di Gheddafi e nel 1995 proprio il carcere di Kuwaifiya fu teatro di una sommossa degli islamisti del Fronte di combattimento che si propagò a tutta la regione. Il regime allora negò l’esistenza di rivolte ma poco dopo lo stesso Gheddafi scampò di un soffio a un attentato nella Sirte. Il comando della sicurezza in Cirenaica, sarebbe stato affidato al figlio di Gheddafi Saadi, forse perché il padre spera che come poliziotto si riveli migliore di quanto non fosse come calciatore quando militò nel Perugia disputando una sola partita prima di essere trovato positivo all’antidoping. Si lanciò quindi in affari con l’idea di costruire una “Hong Kong libica”, una sorta di paradiso fiscale esentasse che naufragò prima ancora di nascere. Il Colonnello, che secondo molti si sta “perdendo nel suo labirinto”, ieri ha fatto un’apparizione nella Piazza Verde di Tripoli, dove la situazione appare ancora tranquilla. Non ha parlato alla folla organizzata dal regime ma la radio ha trasmesso il sermone del venerdì in cui si accusano i media stranieri di fomentare “le divisioni del paese secondo un piano dettato dall’imperialismo occidentale e dal sionismo”. Un discorso che poteva funzionare per le generazioni del Maghreb di trent’anni fa, non per quelle di oggi. Eppure Gheddafi, secondo i servizi occidentali, dovrebbe farcela a festeggiare in settembre i 42 anni di dittatura a meno che l’incendio non bruci completamente il suo regime. Non va meglio nello Yemen, con tre dimostranti antigovernativi stati uccisi venerdì a colpi di arma da fuoco nella città di Aden, nel sud del Paese. Quanto al Bahrain, la coalizione Wefaq, principale gruppo di opposizione sciita, ha respinto l’offerta di dialogo avanzata da re Hamad, ribadendo che prima il governo dovra’ rassegnare le dimissioni e ritirare i soldati dalle strade di Manama. Lo ha riferito la Bbc, ricordando che ieri sono stati almeno 50 i feriti durante i funerali dei 4 manifestanti uccisi nei giorni scorsi. Re Hamad Isa al-Khalifa aveva chiesto al figlio maggiore Salman di avviare colloqui a livello nazionale per risolvere la crisi, operazione, come si vede, naufragata. Come nel 1994, quando fu arrestato il religioso sciita Sheikh Ali Salman che aveva osato criticare la famiglia reale e chiesto di rimettere in funzione il parlamento, anche questa volta, ricorda il Sole 24 ore, a protestare sono gli sciiti di modeste condizioni che – in parte di etnia araba e in parte di origine persiana – vivono nelle zone suburbane della capitale. Esiste una classe media che vorrebbe una riforma del sistema, ma non rappresenta lo zoccolo duro della protesta. Inizialmente pacifiche, non settarie e nazionaliste, le dimostrazioni hanno coinvolto anche i sunniti ma sono state innescate nelle aree sciite. In Bahrein il reddito medio pro capite è di 25.420 dollari l’anno e le proteste non si potranno placare concedendo solo denaro: i manifestanti chiedono riforme politiche per trasformare il paese in una monarchia costituzionale, prendendo le distanze da quell’oligarchia reale che da troppo tempo occupa numerose posizioni ministeriali. Basti pensare allo zio di re Ahmad, il corrotto Sheikh Khalifa: premier da 40 anni (dall’indipendenza dal Regno Unito nel 1971), ha accumulato una fortuna e la sua rimozione sarebbe un buon compromesso con l’opposizione. “Da alleato di lunga data del Bahrein”, ha riferito una nota della Casa Bianca, “gli Usaritengono che la stabilita’ del Paese dipenda dal rispetto dei diritti universali e da riforme che rispondano alle aspirazioni di tutti i cittadini”. “Il presidente Obama – afferma il testo della Casa Bianca – ha parlato al re del Bahrein Hamad ben Issa al Khalifa per discutere della situazione”. Il presidente ”ha ribadito che condanna la violenza impiegata contro manifestanti pacifici e ha vivamente sollecitato il governo del Bahrein perché dia prova di moderazione”. Il Bahrein ospita la Quinta Flotta Usa ed e’ un alleato strategico dell’America nel Golfo. In un altro comunicato diffuso a margine di una visita in Oregon, Obama si era detto “profondamente preoccupato” dalle notizie di violenze in Behrein, Yemen e Libia. “Gli Usa”, ha ricordato il presidente americano, “condannano l’uso della violenza da parte dei governi contro manifestanti pacifici in questi Paesi o dovunque possa accadere”. Quanto alla Libia, già al’inizio degli scontri, gli USA avevano incoraggiato il Paese stretta fra Egitto e Tunisia, con soli 4 milioni di abitanti diffusi su un territorio smisurato, a rispondere alle aspirazione del suo popolo. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, aveva ricordato che ”i Paesi della regione stanno affrontando le stesse difficolta’ in fatto di demografia, aspirazioni popolari e bisogno di riforme”. “Noi – aveva aggiunto – incoraggiamo questi paesi ad adottare misure specifiche che rispondano alle aspirazioni, ai bisogni e alle speranza dei loro popoli”. Oggi, il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, parlando ai media a bordo dell’Air Force One, ha detto che il presidente Obama è “profondamente preoccupato” dalle notizie di atti di violenza. Ed ha esortato tali governi a esercitare la massima moderazione verso i manifestanti astenendosi da atti di violenza.
Carlo Di Stanislao
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