La fine del dramma borghese ed il recupero del primitivo Abruzzo

Tratto dal celebre testo di Gabriele d’Annunzio, nella riscrittura e per la regia di Claudio Di Scanno, “La figlia di Iorio”,co-produzione  fra TSA e  Drammateatro di Pescara, ha debuttato a luglio scorso a Villa Pamphili a Roma ed ha quindi iniziato una lunga tournèe,  con venti tappe nelle quattro Provincie della nostra Regione. La messa […]

Tratto dal celebre testo di Gabriele d’Annunzio, nella riscrittura e per la regia di Claudio Di Scanno, “La figlia di Iorio”,co-produzione  fra TSA e  Drammateatro di Pescara, ha debuttato a luglio scorso a Villa Pamphili a Roma ed ha quindi iniziato una lunga tournèe,  con venti tappe nelle quattro Provincie della nostra Regione. La messa in scena al Ridotto del Teatro Comunale de L’Aquila, prevede due spettacoli domenica prossima: il primo alle 17,30, il secondo tre ore dopo. Come scrive Claudio Di Scanno nelle note di regia, è nel  passaggio dalla festa al sacrificio e alla morte che si definisce l’idea di questa “Figlia di Iorio” e cioè di uno spettacolo che è anche una riflessione sulla tradizione immutabile e, per vivo contrasto, l’urgenza di rinnovamento che le nuove generazioni sempre ci propongono, anche attraverso dei naturali atti d’amore. E che spesso vivono come una istanza tragica e di profonda conflittualità. Come un doloroso naufragio dell’anima. Com’è noto, la vicenda è ambientata in Abruzzo, nel giorno di San Giovanni. La famiglia di Lazaro sta preparando le nozze del figlio Aligi; l’atmosfera è gaia grazie ai canti e ai dialoghi allusivi ed effervescenti delle tre sorelle. Aligi pare comunque turbato da strane sensazioni e da presagi e si esprime in un linguaggio onirico. Mentre la cerimonia nuziale sta procedendo con un frammisto di riti rurali, ancestrali, pagani precristiani, irrompe nella casa Mila per cercarvi rifugio; lei è una donna dalla cattiva fama, ma è costretta a fuggire per evitare le molestie di un gruppo di mietitori ubriachi. Quando Aligi, incitato dalle donne presenti al matrimonio, sta per colpirla, viene fermato dalla visione dell’angelo custode e dai pianti delle sorelle. Aligi riesce persino a convincere i mietitori a rinunciare alla loro preda. Mila e Aligi finiscono per convivere assieme in una caverna pastorale in montagna; la loro unione è solo spirituale e anzi sperano ardentemente di recarsi a Roma per ottenere la dispensa papale e poi sposarsi. Ma la storia non è a lieto fine. Ornella, una sorella di Aligi, addolora profondamente Mila con il racconto sullo stato di disperazione in cui è caduta la sua famiglia, dopo la partenza di Aligi. Mila decide allora di fuggire, ma viene fermata da Lazaro che cerca di sedurla con la forza; Aligi interviene a difendere la donna e nasce così una colluttazione tra padre e figlio che terminerà con la morte del padre. Aligi evita la condanna solo per l’autoconfessione di Mila, che si addebita ogni colpa, proclamandosi strega. Verrà condotta alla catasta per morire sulle fiamme. “Dopo Fedra, prodotta nel 2009 – ha detto Di Scanno – ho inteso continuare ad occuparmi di Gabriele D’annunzio,  attraverso una riscrittura de “La figlia di Iorio” scaturito tra l’altro dal suo bisogno di rompere con il dramma borghese, dalla necessità di liberarsi del concetto d verosimiglianza, per ritrovare l’arcaico, il sogno, ciò che si pone fuori a ogni legge di tempo e di luogo”. E, dice la critica, l’operazione è pienamente riuscita, anche grazie ad attori di grande talento: Susanna Costaglione, Francesco Anello e Emanuele Vezzoli. La tragedia, in tre atti, è del 1903 e fu rappresentata per la prima volta al Teatro Lirico di Milano il 2 marzo 1904,  con la compagnia teatrale di Virgilio Talli ed ebbe enorme successo: in realtà nell’opera doveva prendere parte Giacinta Pezzana nella parte di Candia della Leonessa, ma fu sostituita da Teresa Franchini che divenne anche la sostituta, nel corso delle tournée, di Irma Gramatica,  che interpretava Mila. Ruggero Ruggeri era Aligi e gli altri interpreti erano Oreste Calabresi nei panni di Lazaro e Lyda Borelli. Le scene, i costumi erano di Francesco Paolo Michetti. D’Annunzio, che proprio l’anno precedente aveva realizzazione alcuni dei suoi capolavori lirici come Alcione, viveva il doloroso distacco da Eleonora Duse, piombando in una spirale di lussi e di debiti. Egli stesso in una lettera a Michetti scrive della’opera: “Tutto è nuovo in questa tragedia e tutto e semplice. Tutto è violento e tutto è pacato nello stesso tempo. L’uomo primitivo, nella natura immutabile, parla il linguaggio delle passioni elementari… E qualcosa di omerico si diffonde su certe scene di dolore. Per rappresentare una tale tragedia son necessari attori vergini, pieni di vita raccolta. Perché qui tutto è canto e mimica… Bisogna assolutamente rifiutare ogni falsità teatrale”. “La Figlia di Iorio” è stata portata sullo schermo, all’epoca del muto, due volte. Recentemente, in occasione del centenario, il Comune di Pescara e Il Vittoriale hanno sostenuto la produzione della versione cinematografica della tragedia. L’ha diretta e prodotta il regista Mario A. Di Iorio, girandola in digitale. Elena De Ritis è Mila di Codra; Corrado Proia è Aligi. Nella riscrittura di Di Scanno, si coglie pienamente ciò che riportava D’annunzio al suo Abruzzo: un sogno antico che riconduce il poeta alla sua terra d’origine, che nell’opera viene riportata ad uno stadio primitivo ed innocente, caratterizzato da usi e costumi arcaici. È infatti alla natura aspra della sua gente che il poeta salda la tragedia del destino. È un’opera variegata pervasa dal filo conduttore della musicalità dannunziana. Ecco perché sembra quasi rientrare nella normalità delle cose, la vicinanza della frase ricercata e colta con la filastrocca invece basata su temi popolari; oppure il tono realistico alternato a quello trasognato, indefinito e misterioso. I personaggi, i loro stessi nomi ci proiettano fin da subito in una dimensione arcaica, che però non riconduce ad una dimensione storica, bensì ad una sorta di ambito favolistico, o meglio fabulistico, vale a dire magico, senza tempo, finanche allegorico, finanche grottesco. Una eterna sostanza umana dove ci è consentito di rintracciare una fissità dei personaggi, una loro immutabilità, personalità prive di sviluppo che disegnano tipi, tipi di una tragedia dell’arte, tutti con una loro psicologia rudimentale, espressivi di caratteri e moti dell’animo umano. A dominare l’accadimento un forte senso di fatalità. Non un Dio a sovrastare il destino degli uomini ma il Fato, tutto ciò che sta fuori del Tempo, ciò che è sempre stato e che si ripete fatalmente appunto. A dominare una cornice del senso di tragedia che pervade la scena, in cui il divino e l’umano si incontrano nel rito, sintesi di Cielo e Terra, generando una densa, cruenta, estenuante fabula drammatica, una battaglia dell’anima, una battaglia nell’anima. Una Psicomachia! Una Fabula psicomachica, sullo sfondo di una religiosità arcaica ed essenziale, tra valori e simboli tradizionali, come la Casa, la Festa, la Montagna e la Grotta,… Elemento perturbante, l’amore tra i due giovani, Aligi e Mila, mina l’unità della comunità, una comunità arcaica dove non contano le singole individualità ma i legami di sangue e la loro conservazione. Di conseguenza le gerarchie e i codici di comportamento che difendono il gruppo e la comunità dalla trasgressione dei “ribelli”, da chi intende affermare la propria autonomia individuale, la propria diversità. Da qui l’espulsione dal corpo sociale giacchè il “diverso”, il ribelle, può agire come un virus capace di aggredire e disgregare, infettare i legami di sangue e quindi la loro conservazione. Così, a tutela del corpo sociale, della sua conservazione-coesione, va a collocarsi il “rito cruento”, il sacrificio della vittima designata, il sacrificio del “diverso”, perché il sacrificio ricompatta il corpo sociale, evitandone la disgregazione. Le trasformazioni della scena vengono sancite dalla progressiva scoperta dei luoghi dove si consumano gli accadimenti (dal cortile erboso di una casa alla grotta in montagna di nuovo alla casa), e quindi alla successione cromatica degli stessi abiti di scena che vanno dal bianco della festa al grigio delle nuvole minacciose che oscurano il cielo e quindi al nero del sacrificio e del lutto. Infine, ricordiamo, che lo spettacolo è una coproduzione Teatro Stabile d’Abruzzo e Drammateatro nell’ambito del “Progetto Abruzzo”,  che vede il TSA incubatore e partner delle realtà più prestigiose e dinamiche del panorama teatrale abruzzese.

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