Il nostro Paese, infatti, sta consumando molto più pesce rispetto alla produzione nazionale e dal 30 aprile, di fatto, dipende dai prodotti ittici provenienti da altri mari. A rivelarlo è il dossier Fish Dependence presentato dala New Economics Foundation (NEF) e da Ocean2012 secondo il quale dal 2000 la differenza tra la ricchezza dei mari e il prelievo è divenuta in Italia sempre maggiore e il deficit alimentare è cresciuto ininterrottamente ponendo “fine” alla quantità di pesce nostrano per il 2011 incapace di soddisfare l’eccessivo aumento di domanda interna. Il dato certo positivo da un punto di vista nutrizionistico contrasta quindi con la drammatica situazione degli stock ittici dei mari a partire dal Mare Nostrum.
Come ha dichiarato Aniol Esteban co-autore del rapporto assieme a Rupert Crilly, se “oggi il 54% dei 46 stock ittici Mediterranei esaminati sono sovra sfruttati […] l’Italia registra il peggiore squilibrio commerciale di tutti i paesi membri dell’Unione Europea” tanto che nel corso dell’ultimo anno, il livello di autosufficienza è sceso dal 34,3 al 32,9 per cento. Di conseguenza è aumentata la dipendenza dalle importazioni di pescato che non proviene dai 7.500 km delle italiche coste, anticipando il cosiddetto “Fish Dependance Day” dal 6 maggio del 2006 al 30 aprile del 2011*.
Ma non si tratta però di un problema solo italiano. “Basandosi sui livelli delle importazioni e dei consumi registrati dal 2007 – si legge nel rapporto -, se l’Unione Europea consumasse solo il pesce proveniente dalle proprie acque, esaurirebbe i suoi stock ittici il 2 luglio 2011, diventando dal giorno dopo totalmente dipendente dal pesce importato dal resto del mondo”. Il dato più preoccupante è che il “Fish Dependence Day” dell’UE arriva sempre prima nell’arco dell’anno, oggi ciò avviene quasi un mese prima rispetto al 2010, causando una sempre più forte dipendenza dai prodotti ittici di importazione sebbene gli stock ittici siano una risorsa potenzialmente rinnovabile.
Non siamo davanti ad un problema transitorio. Nell’Unione europea, che vanta alcune delle più potenti flotte di pesca del mondo, le catture sono diminuite del 2 per cento all’anno dal 1993, mentre in quasi 50 anni, fra il 1960 e il 2007, il consumo di pesce mondiale si è quasi raddoppiato, salendo dai 9.0 ai 17.1 kg pro-capite annuali. In Europa stando alle cifre riportare dal dossier, in media “ogni cittadino consuma oltre 22 kg di prodotti ittici annui”, ma tale quantità, decisamente in crescita, si scontra con la diminuzione del pescato. Infatti, mentre nel 2007 il totale delle catture nelle acque comunitarie era di circa 4 milioni di tonnellate, circa il 38 per cento del consumo totale di pesce stimato in 10,7 milioni di tonnellate, appena due anni prima, ammontava a 5,4 milioni di tonnellate di pesce, oltre la metà del consumo annuale che allora era pari a 9,3 milioni di tonnellate. Una crescita costante destinata nei prossimi anni a salire ulteriormente come conferma anche il recente studio Fishery and Aquaculture Statistics Yearbook (.pdf) della FAO.
“L’UE – ha precisato Serena Maso, coordinatrice nazionale di Ocean2012 – aveva la più grande e ricca zona di pesca al mondo, ma non è riuscita a gestirla responsabilmente e per soddisfare la sempre maggiore richiesta di pesce, è aumentato il sovrasfruttamento anche in altre parti del mondo”. Al fine di invertire questo “trend disastroso” e visto che il sovra sfruttamento delle scorte ittiche “non è stato bilanciato dal processo di sviluppo dell’ acqualcoltura e dei sistemi di allevamento – ha aggiunto la Maso – è necessario ripristinare la salute degli stock ittici europei, pescando secondo criteri di sostenibilità e consumando solo prodotti ittici pescati in sicurezza”. Eppure, “consumare molto più pesce di quanto le acque europee siano in grado di produrne – ha continuato Esteban – significa compromettere il futuro degli stock ittici e delle comunità che dipendono dalla pesca e mettere a rischio posti di lavoro e mezzi di sussistenza sia in Europa che in altre parti del mondo”.
Il rapporto sottolinea quindi che “se vogliamo prodotti ittici sostenibili, dobbiamo assicurarci che i decisori politici concordino e attuino una politica della pesca responsabile. La Riforma della Politica Comune della Pesca dell’Ue deve garantire la sostenibilità della pesca in Europa e non consentire l’importazione di quantità sempre maggiori di pesce, ne tanto meno l’esportazione del nostro modello di sovrasfruttamento” ha aggiunto la Maso.
Per quanto riguarda il caso italiano, la proposta avanzata dalla Coldiretti Impresa Pesca è quella di un fermo pesca di quattro mesi per la fascia costiera e il blocco dell’attività delle imprese per 30 o 60 giorni, perché nonostante tanti convegni, moniti e campagne a rischio ci sono le possibilità riproduttive della fauna marina (in primis quella di tonno rosso una specie pregiatissima che come denuncia da mesi Greenpeace è ormai diventata rara in tutto il Mediterraneo).
“La crisi che ha investito le nostre banche – ha concluso Esteban – ci ha insegnato i rischi del vivere al di là delle nostre possibilità finanziarie. Ancora più pericoloso sarebbe vivere oltrepassando la soglia della sostenibilità ecologica”. Per questo la tutela del patrimonio marino è una priorità fondamentale per gli equilibri naturali e bisogna imparare a comprare, sfruttando tutte le risorse del mare e rispettando la stagionalità dei pesci.
*La data del Fish Dependence Day è ovviamente una provocazione, che può generare qualche incomprensione. In effetti si può pensare che in Italia, dal 30 aprile in poi si mangi solo pesce importato, mentre fino a quella data solo pescato nazionale. Ovviamente non è così. Pesce italiano e pesce importato sono insieme sui banchi di pescheria per tutto l’anno, ma se prendessimo tutto il pescato italiano e tutto quello importato e li separassimo, il primo coprirebbe i primi 4 mesi, il secondo il restante periodo. Ecco la provocazione di fissare una data di “dipendenza” dal pesce importato.
Alessandro Graziadei-Unimondo
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