Le speranze dei giorni scorsi sono andate scemando verso la vigilia ripiegando, e sarebbe stato comunque un successo, per una sfida tutta al maschile tra migliori attori, seppure stranieri: il papa codardo Michel Piccoli e il l’ex rocker Sean Penn. In mattinata le prime indiscrezioni pessimiste: Penn ripartito per l’America, Piccoli mai rientrato da Parigi e i rispettivi registi uno già a casa, Sorrentino mestamente sulla Croisette a fare i bagagli per tornarci, visto che dal protocollo del festival non arrivava alcuna telefonata. Il presidente di giuria Robert De Niro ha riconosciuto il valore di entrambi ma certo, ha detto, non si può premiare tutti. E l’Italia, a parte la Palma d’oro alla carriera a Bernardo Bertolucci, non ha vinto neppure alla Quinzaine dove era in gara il pur bello “Corpo celeste” di Alice Rohrwacher. Ce ne torniamo a mani vuote anche da Cannes, nonostante le aspettative della vigilia (film, regia, interpreti) per “Habemus Papam” di Nanni Moretti e “This must be the place” di Paolo Sorrentino, accolti favorevolmente e con due protagonisti (Michel Piccoli e Sean Pean) superlativi. Poco consola il premio “Ecumenico” al film di Sorrentino, assegnato dagli esercenti indipendenti e dalla fondazione per i diritti d’autore. Vince “The Tree of Life” di Terrence Malick, anche se, a fine proiezione il pubblico si era diviso, in maniera piuttosto equa, tra fischi e applausi. Abilmente interpretato da Brad Pitt e, ancora, Sean Penn, il film narra le vicende dell’amore e del dolore familiare in tutte le sue più amabili e tristi forme, fino a generare una vicenda in grado di accompagnare lo spettatore in un grande viaggio attraverso le più diverse emozioni. Quanto ad “Un certain regard”, è stato vinto ex equo da Kim Ki-Duk ed Andreas Dresen, il primo per il documentario autobiografico Arirang, l’altro per “Stopped on track”, un film drammatico e poetico, in cui si racconta, in maniera sublime, il dramma patito da un malato terminale, alla fine della vita. La sezione ha anche premiato l’iraniano Mohammad Rasoulof come miglior regista, per il suo “Goodby”, mentre una mansione speciale è stata assegnata a “Nadine Labaki” per “Where do we go now?” e a Andrey Zvyagintsev, che ha vinto il premio speciale per “Elena”. Jean Dujardin vince la Palma come migliore interprete maschile per “The Artist”, forse il più sorprende fra i film in concorso; mentre quella per la migliore attrice va a Kristen Dunst, per “Melancholia”, del sempre irriverente, spericolato, irritante ed urticante Lars von Trier. Dovendo fare un bilancio di questa 64° edizione, va detto che è stato un concorso che ha visto il passaggio di molti film eccellenti e un che non solo non ha deluso le attese, ma le ha addirittura superate, come non accadeva da anni. I più lo ricorderanno come il festival dello scandalo Von Trier, ma, si sa, Cannes è sempre stato il luogo degli scandali: dal seno nudo sulla Croisette di Simone Silva, coperto soltanto dalle mani a coppa di Robert Mitchum nel 1954, a François Truffaut e consorte che si attaccano al sipario nel maggio ’68 per impedire la proiezione di Peppermint frappé di Carlos Saura e provocare così l’annullamento del Festival, al coro di fischi e lazzi che accoglie nel 1973 La Grande Bouffe di Marco Ferreri. E ancora, la fellatio senza rete di Le diable au corps di Bellocchio per bocca di Maruschka Detmers nel 1986, il grido d’odio di Maurice Pialat nel 1986, quando per Sous le soleil de Satan viene premiato fra le urla di chi non è d’accordo. Tre anni fa, ancoras Lars von Trier, che nel suo Antichrist metteva in scena Charlotte Gainsbourg che, dopo aver evirato a bastonate William De Foe, si praticava la scissione della clitoride. Ma, in questa edizione, vi sono state molte più memorabile note: la protesta Palhavi, il ritrovato Allen, il conturbante Markus Schleinzer, lo spericolato Nicolas Winding Refn, il miracolo della coppia Brangelina, della canterina Deneuve, ecc., ecc. Tornando ai premi, quello per la miglior regia è andato a Nicolas Winding Refn per ”Drive”, quello della giuria (presieduta da Robert De Niro) a ”Poliss” di Maiwenn. Nella sezione cortometraggi, Palma d’Oro a ”Cross – Country” di Maryna Vroda e premio della giuria a ”Badpakje 46” (Swimsuit 46) di Wannes Destoop. Infine, Camera d’Oro a ”Las acacias” di Pablo Giorgelli. Strana persona il trionfatore Terence Malick, non convinto neanche dalla Palma D’Oro a partecipare alla cerimonia di premiazione, sicchè sono saliti sul palco i produttori Sarah Green e Bill Pohland. Autore dai contenuti duri e spietati, che presenta al grande pubblico ritratti di uomini in crisi con il loro tempo, con le loro convinzioni e con la società della quale fanno parte, ma che ha segnato l’arte cinematografica di una ritrovata poesia dal punto di vista visivo, Malick si è meritato piogge di candidature all’Oscar e la considerazione della critica internazionale. Il suo primo passo verso il cinema è il cortometraggio del 1969 Lanton Mills con Warren Oates e Harry Dean Stanton, mentre il suo capolavoro è “La sottile linea rossa”, tratto dal romanzo di James Jones. Il film con cui ha vinto a Cannes è un progetto che risale al 1980, quando la Paramount, dopo “ I giorni del cielo”, voleva affidargli la regia di The Elephant Man e lui rifiuta, presentando questo progetto che allora si chiamava “Q”. Trenta anni dopo riesce a realizzarlo e lo chiama “L’albero della vita”: genealogia di una piccola famiglia degli Stati Uniti d’America, realizzato con grande caratterizzazione stilistica, dall’uso di un montaggio emotivo da avanguardia, come nel suo cinema degli esordi, ad una sequenza curiosamente molto vicina al finale del recentissimo Clint Eastwood, Hereafter. Un film che rinnova, ritrovando un’emozione primigenia, fondendo ricordo e speranza, il vero senso della “settima arte”.
Carlo Di Stanislao
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