“O il lavoro o i diritti”: è questa la legge che Fausto Bertinotti, ex Presidente della Camera, venuto ieri all’Aquila, in Piazza Duomo, per la presentazione del libro “Cristo fra i muratori”, ha estratto dal volume della storia di un lavoratore edile abruzzese emigrato in America, che del sogno americano vede poco o niente. L’aut-aut che determinerà la morte del padre del protagonista del libro, non può tuttavia considerarsi datata al 1939, anno in cui il libro viene pubblicato in America. Ancora oggi, infatti, “il carbone vale più della vita umana” – afferma Bertinotti – “basti pensare ai nuovi ricatti di Mirafiori e Pomigliano”.
L’autore del libro, Pietro Di Donato, di cui si celebra il centenario dalla nascita, è originario di Taranta Peligna (CH), un paesino di poco più di 400 persone, in cui è stato anche istituito un Premio Giornalistico sulla sicurezza in ambiente di lavoro.
Ristampato nel 2001 in Italia da Corbisiero, il romanzo narra le vicende della famiglia Di Donato. Il padre di famiglia, Geremia, immigrato abruzzese capomastro di un cantiere edile, il giorno di venerdì santo del 1923 precipita da un’impalcatura e muore. Sarà lo zio Luigi, anche lui muratore ad occuparsi dell’intera famiglia (la sorella Annunziata e gli otto nipoti), almeno fino a quando un nuovo incidente sul lavoro non lo renderà per sempre invalido. Il vero protagonista del romanzo, però, è Paolo (verosimilmente lo stesso autore), figlio dodicenne di Geremia e Annunziata. Con la famiglia ridotta alla fame è proprio lui a doversi scontrare per la prima volta con l’indifferenza delle Istituzioni. Anche il ragazzo non ha scelte: deve crescere e anche in fretta. Così, per mantenere sé e la sua famiglia diventerà muratore.
Nella nostra lingua, di sicuro in quella della terra degli Abruzzi, da secoli tra i cafoni di Silone nella loro eterna condizione a metà tra povertà e ignoranza, il termine comune per indicare una persona è sempre stato “cristiano”. Non tanto e non solo per connotare un’appartenenza religiosa diffusa, quanto piuttosto per richiamare una condizione esistenziale. I cafoni hanno sempre identificato se stessi come ‘poveri cristi’, in un atto di autocommiserazione e riconoscimento della propria disperazione, almeno per le persone anziane siamo tutti cristiani, cristi in croce.
Per questo il libro di Di Donato è anche il libro della storia dell’Abruzzo e della storia dell’emigrazione dei tanti abruzzesi che all’inizio del ‘900 si trovavano al posto dei contemporanei libici, marocchini, tunisini o sudanesi. Tuttavia, la testimonianza di questo povero cristo non è solo importante per leggere la storia dal nostro/loro punto di vista, che in fondo è lo stesso, vista la comune umanità e la comune sorte che prima o poi tocca ad ogni popolo. La storia di Di Donato è un fiume in piena che si scaglia contro il problema della sicurezza sul lavoro, dell’emarginazione sociale e dell’integrazione degli immigrati (ca il 30% nell’Aquila post-sisma), sempre più spesso vittime di “fenomeni striscianti di intolleranza e razzismo” ha detto Mario Alaggi dell’Associazione “Ricostruire insieme”.
Inoltre, oggi all’Aquila, richiamare l’attenzione su questi temi, con un’iniziativa che, come è scritto nel manifesto, è “dedicata a tutti i lavoratori edili”, serve non “ad escludere gli altri” – ha tenuto a precisare Rita Innocenzi (Fillea Cgil L’Aquila) – “ma a dare protagonismo alle tante persone che lavorano sulla ricostruzione, che stanno dietro a quello che vediamo”.
I protagonisti del lavoro sui cantieri nella città distrutta sono i tanti lavoratori “aquilani, italiani, comunitari ed extracomunitari”- ha dichiarato Alessandro Tettamanti del Comitato 3 e 32 – “che spesso non hanno un posto dove stare. Alcuni dormono in macchina e poi la mattina vanno in cantiere”. Oppure, come ha detto il Sindaco Massimo Cialente, “addirittura alcuni hanno dormito nelle case E non avendo altro posto”. Per questo aggiunge: “c’è un’Ordinanza per la quale le ditte che vengono a lavorare all’Aquila devono far sapere dove vivono i lavoratori, perché abbiamo dato la possibilità di fare campi base”. Tuttavia, “i campi base sono pochi e non sono la soluzione per tutti”, ha ricordato Mario Alaggi – “per questo è necessario che il Comune aderisca alla proposta di assicurare alcune caparre di garanzia ai proprietari che affittano ai migranti, per aiutarli a superare lo scetticismo”.
“Oggi la situazione è molto più meticcia di prima ma non se ne occupa nessuno” – ha denunciato Alessandro Tettamanti – “se non la Caritas o la Questura. Non sono le associazioni che devono occuparsene, ma le Istituzioni”. La ricostruzione è anche un momento in cui la città diventa un flusso di migrazione, di persone che vengono e verranno a lavorare ma che hanno bisogno anche di viverla e magari di rimanerci. Secondo Cialente, “fra poco ci sarà un momento in cui le case saranno anche troppe e quindi l’Aquila avrà l’opportunità di scrostarsi di dosso la rigidità e la pigrizia, legate alla rassegnazione della convivenza ai terremoti” e accogliere chi viene da fuori.
Sul problema della sicurezza sul lavoro, almeno per la fase del puntellamento del centro storico, L’Aquila si è contraddistinta positivamente per aver attivato un Super Coordinamento, nato per volontà del Sindaco e dell’allora Prefetto Gabrielli, che ha dato vita ad un nuovo modello di gestione. Come ha spiegato Maurizio Ardingo, Responsabile della Sicurezza Cantieri, “il controllo dei cantieri è passato attraverso l’identificazione dei lavoratoti (2900) per mezzo di pass e la supervisione di otto tecnici quotidiani presenti del centro storico, nonché attraverso la creazione di spazi di viabilità per l’accesso di vigili del fuoco e ambulanze”.
In questo momento in cui la prima fase (i puntellamenti) non è ancora finita e la seconda (la ricostruzione) non è iniziata, “le maestranze sono solo 250”, ricorda Ardingo.
Il Sindaco ha assicurato che “il lavoro sulla sicurezza fatto sul centro storico dev’essere fatto su tutto il Comune e giovedì mattina ci sarà una riunione per decidere”.
Il tema della giornata è stato, dunque, quello che il protagonista chiama nel libro “job”, il lavoro. Il termine “job”, ha spiegato Bertinotti, “non è solo un termine inglese, ma è la prima parola che Geremia afferra, la ragione della sua sopravvivenza ma anche quello che lo condanna a morte”.
La parola, soprattutto quella scritta, è eterna e in particolare quella del romanzo sembra essersi solidificata nella pagina come calcestruzzo e come tale è destinata a durare. Ne sono una prova i brevi passi dell’opera letti dall’ex Presidente della Camera, come: “I ponteggi non sono sicuri, perché i ricchi devono guadagnare di più”. Niente di più attuale nell’Italia dei 3/4 moti sul lavoro al giorno, considerati il più delle volte una casualità e non una colpa, e nella città dove l’equazione mancanza di edifici sicuri=morte, si è dimostrata più tristemente vera che altrove.
Lisa D’Ignazio
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