“Gli oceani si sollevano, le città scompaiono, la speranza sopravvive”(Deep Impact, il film, Usa 1998). Poche ore mancano al massimo avvicinamento alla Terra del nuovo asteroide “2011 MD” che sfiorerà il nostro Mondo alla quota di circa 12mila chilometri (7.500 miglia). Accadrà lunedì 27 giugno 2011 alle 19:14 ora italiana, qualche ora dopo rispetto a quanto preliminarmente stabilito.
I nuovi dati della Nasa confermano che “2011 MD” raggiungerà il massimo avvicinamento alla Terra, tre ore e mezza più tardi. Anche il punto esatto è stato ricalcolato: 3.218 km a sud-sudovest del Sud Africa. La Natura e le sue Leggi non si possono eludere. I nuovi parametri orbitali dell’oggetto escludono definitivamente, secondo gli analisti della NASA e del JPL, anche la più remota eventualità di un impatto cosmico. Dunque non c’è alcun pericolo per la Terra: la roccia spaziale non impatterà con il nostro pianeta. Pare che l’asteroide, grande come una coppia di autobus, scoperto mercoledì 22 giugno 2011 dall’Osservatorio Linear del Nuovo Messico e tracciato nella fase di avvicinamento alla Terra, stia effettivamente subendo alcune “variazioni” orbitali nella sua corsa gravitazionale intorno al Sole, indotte soprattutto dalla massa del nostro Mondo. I dati confermano grosso modo i calcoli preliminari della traiettoria del piccolo asteroide (http://neo.jpl.nasa.gov/news/news172.html) ed indicano il massimo avvicinamento di “2011 MD” sopra l’Oceano Atlantico Meridionale presso le coste dell’Antartico. L’orbita dell’asteroide è interna a quella dei principali satelliti artificiali geosincroni in orbita. Secondo gli scienziati, le probabilità di impatto con un satellite sono molto basse se non irrilevanti. La luminosità dell’asteroide, misurata dai principali Osservatori Astronomici, ne rivela anche le dimensioni comprese, secondo le migliori stime, tra i 9 e i 30 metri di diametro. Secondo gli scienziati Nasa/Jet Propulsion Laboratory di Pasadena (California), la frequenza di avvicinamento alla Terra di oggetti cosmici di questo tipo, è dell’ordine di una ogni 6 anni. Asteroidi di queste dimensioni, tuttavia, in caso di impatto diretto al suolo con tutta la massa e l’energia iniziali, sono potenzialmente in grado di devastare una grande città liberando l’energia di una bomba termonucleare. Generalmente oggetti sotto i 25 metri si consumano nell’atmosfera in uno spettacolare fuoco pirotecnico naturale. Dal 2008 ci sono passati sopra la testa altri tre piccoli asteroidi a distanze molto ravvicinate, all’interno delle 0.00012 Unità Astronomiche (18.000 Km) dal centro della Terra. Sembrerà paradossale ma “2011 MD” nella sua eccezionalità non ha bruciato alcun record. Neppure l’attuale saldamente in pugno all’asteroide “2011 CQ1” che lo scorso 4 febbraio 2011 ci ha sfiorati alla quota di 3.400 miglia (5.471 Km). Il Minor Planet Center che ha raccolto e confermato immediatamente la scoperta dell’Osservatorio Linear, rivela che “2011 MD” sarà pur sempre 250 volte più debole della più piccola stella visibile a occhio nudo. Gli osservatori che dall’Australia, alla Nuova Zelanda, dall’Asia meridionale e orientale, compreso il Pacifico meridionale, riusciranno a seguire “live” il veloce passaggio di “2011 MD”, comprendono la singolarità di un fenomeno difficile da osservare e fotografare. In passato, prima del 1908, gli scienziati non erano molto preoccupati perché pensavano che la distanza dalla Terra della maggior parte di questi 210mila oggetti primordiali del Sistema Solare (vere e proprie miniere a cielo aperto pronte ad essere sfruttate dall’uomo in un prossimo futuro: la Nasa vi spedirà molto presto una missione umana, nel frattempo seguite la sonda “Dawn” prossima al pianetino Vesta: www.nasa.gov/mission_pages/dawn/main/index.html) situati in orbite comprese tra i pianeti Marte e Giove, fosse garanzia di sicurezza quasi assoluta per il nostro Mondo. Tuttavia i pericolosi frammenti come “2011 MD” sono molti di più e le loro orbite irregolari possono essere perturbate da comete iperboliche di passaggio e/o da impatti seppur altamente improbabili con altri asteroidi ed astri chiomati. Le foto di Vesta riprese dalla sonda “Dawn” lo confermano. Anche i pianetini sono saturi di crateri da impatto. Quindi le masse di Giove e di Marte nulla possono contro questa nuova minaccia per la Terra. I frammenti cometari sono i più devastanti perché più numerosi e più difficili da scoprire e tracciare nella rotta finale di avvicinamento alla Terra, soprattutto se provenienti da strane orbite irregolari prossime al piano orbitale del Sole! Quindi “2011 MD” è il classico avviso ai naviganti. Un esempio di ciò che gli 8.099 “Near-Earth Objects” già scoperti, 827 dei quali classificati come asteroidi di un chilometro di diametro, possono fare alla Terra, alle nostre città, regioni, mari, laghi e continenti. Se pensiamo che 1.236 di questi asteroidi NEO sono stati classificati come “Potentially Hazardous Asteroids” (PHAs), allora capiamo bene l’urgenza di valorizzare ad ogni costo ogni osservatorio terrestre e spaziale per scrutare lo spazio cosmico e, nei limiti delle umane possibilità, poter scongiurare la catastrofe con un pre-allarme significativo di mesi e di anni, non di ore. La Nasa ha in programma varie missioni ma non basta. L’Europa e l’Italia debbono poter fare la loro parte insieme a tutte le Agenzie spaziali pubbliche e private. Anche l’Osservatorio Astronomico “Vincenzo Cerulli” di Teramo farà la sua parte in piena autonomia e con i giusti finanziamenti.
A quando la prossima Tunguska? Fu davvero Deep Impact sulla Terra quel 30 giugno del 1908, alle ore 7:17 del mattino, quando una luce accecante come quella di mille soli, improvvisa, fortissima squarciò il cielo sulle foreste della regione euroasiatica intorno al fiume Tunguska, nella Siberia centrale. Pochi istanti dopo si udì una terribile esplosione e l’antica taiga prese fuoco, bruciando istantaneamente per 2mila km quadrati…Un enorme fungo bianco salì fino a 80 km di quota visibile a centinaia di chilometri di distanza dal ground zero. Un piccolo corpo cosmico era esploso a otto km dal suolo. L’evento, molto simile a una detonazione termonucleare (di potenza energica equivalente compresa tra i 10 e i 15 megatoni, circa 1000-1.500 volte più potente della bomba sganciata dagli Usa su Hiroshima), fu registrato dai sismografi britannici: l’onda d’urto fece due volte il giro della Terra prima di estinguersi. Non si sa se l’esplosione abbia provocato vittime tra i Tungus, un gruppo di nomadi Evenki che popolava la regione: certamente in pochi istanti morirono moltissimi animali e 60 milioni di alberi furono abbattuti come fuscelli. Il corpo cosmico misurava circa 50 metri di diametro, una sciocchezza paragonato ai grandi asteroidi e comete che viaggiano nel Sistema Solare, avvicinandosi a volte all’orbita del nostro pianeta Terra. Si calcola che eventi di questo tipo possano accadere circa una volta ogni due secoli. A 103 anni esatti dal misterioso “impatto cosmico”, giungono dai ricercatori dell’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna (ISMAR-CNR) e del Dipartimento di Fisica dell’Università di Bologna nuove prove che avvicinano la soluzione del “mistero di Tunguska” e che confermerebbero come il 30 giugno 1908 si sia verificato il maggiore impatto storicamente accertato tra il nostro pianeta e un corpo celeste extraterrestre. L’opinione, ora comprovata, è che si sia trattato dell’unico evento in epoca storica e per questo motivo fare luce sul disastro di Tunguska contribuisce in maniera decisiva alla comprensione degli effetti di un impatto asteroidale o cometario con la Terra, ipotesi tutt’altro che remota e sicuramente non infrequente nella storia del nostro pianeta.
Per far luce sull’appassionante enigma cosmico è stato pubblicato sulla rivista scientifica “Terra Nova” il lavoro di un gruppo di ricercatori italiani (Luca Gasperini, Francesca Alvisi, Gianni Biasini, Enrico Bonatti, Giuseppe Longo, Michele Pipan e Romano Serra) che hanno condotto sul luogo una spedizione scientifica, scoprendo che il lago Cheko, un piccolo specchio d’acqua di circa 500 metri di diametro, situato ad otto chilometri dall’epicentro dell’esplosione del 1908, potrebbe essere il cratere causato dall’impatto di un frammento sopravvissuto all’esplosione principale nell’alta atmosfera. “Abbiamo effettuato uno studio geofisico e sedimentologico del lago per verificare se la sua formazione potesse essere correlata all’evento, e per rilevare nella sequenza sedimentaria del lago evidenze geofisiche e geochimiche dalle quali trarre informazioni sulla natura dell’oggetto cosmico” – spiega Luca Gasperini. “Varie spedizioni di studiosi avevano già esplorato la zona di Tunguska senza trovare segni d’impatto o frammenti, e formulando ipotesi, anche molto diverse fra loro, per far luce su quello che è ormai considerato a tutti gli effetti un mistero. Il nostro studio sul campo è stato effettuato principalmente utilizzando rilievi di acustica subacquea, con un obiettivo dunque più ambizioso di quello della prima spedizione italiana, avvenuta nel 1991, anch’essa organizzata dal professor Giuseppe Longo dell’Università di Bologna, e limitata alla ricerca di microparticelle dell’oggetto cosmico nella resina degli alberi”.
Durante la spedizione “Tunguska99” era stata per la prima volta investigata con tecniche molto sofisticate la morfologia del fondo e la natura dei depositi del sottofondo lacustre, e raccolti campioni di sedimento. Risultanze pubblicate nel bellissimo libro “Tunguska” di Nanni Riccobono (Rizzoli) e recentemente su “Il Mistero di Tunguska” di Surendra Verma (Oscar Mondadori). “Grazie a tali indagini – rivela lo scienziato – è stato possibile scoprire che la morfologia del lago è diversa da quella dei comuni laghi siberiani di origine termo-carsica: la natura dei sedimenti recuperati dal fondo sono invece compatibili con l’ipotesi dell’impatto, che sarebbe avvenuto in una foresta acquitrinosa con uno strato sottostante di permafrost (suolo permanentemente ghiacciato) spesso oltre 30 metri”. È stato proprio lo scioglimento del permafrost avvenuto subito dopo l’impatto a modellare la forma e le dimensioni attuali del lago, ed a nasconderne la vera natura di cratere da impatto per tutto questo tempo.
La scoperta, se confermata da ulteriori analisi, contribuirà a svelare il mistero di Tunguska. Il lavoro dei ricercatori italiani ha già causato forti reazioni nella comunità scientifica, ed anche commenti su riviste di grande impatto e nella stampa quotidiana su molte testate europee e internazionali. Siamo forse alla vigilia di un nuovo impatto cosmico? Per scoprirlo ben 1.384 osservatori astronomici sulla Terra scrutano gli freddi spazi siderali. Ma per formalizzare la domanda di cui sopra, senza peraltro suscitare inutili allarmismi, è necessario assumere un modello matematico per il cosiddetto rischio di fondo: gli scienziati ne usano uno semplice elaborato dal dott. Chesley ed altri: “Quantifying the risk posed by potential Earth impacts”, già presentato al Congresso di Palermo. Secondo questo modello, gli impatti con energie di circa 10 Megaton (il valore stabilito per Tunguska; 1 MT è l’energia di 100 Hiroshima. Per farsi un’idea della scala di energie in gioco basta considerare che se un corpo di due metri di diametro impatta la Terra alla velocità di 20 Km/sec., rilascia un’energia di 1 megaton) e superiori, dovrebbero accadere ogni 200 anni. Questa frequenza è soggetta a un’incertezza di almeno un fattore 2 (l’errore è di 10 elevato a 2) perché la nostra conoscenza della popolazione di questi piccoli potenziali impattori è ancora bassa. Ma gli astronomi planetari sono interessati solo all’ordine di grandezza e quindi la probabilità totale di un impatto sulla Terra che sviluppi energia superiore ai 10 megatoni, nei prossimi 80 anni, è altissima: qualcosa come due quinti. Ossia 2 su 5. Molto ma molto più alta della probabilità che ha ognuno di noi di morire a causa di un incidente stradale nel corso della propria vita! Se diamo un’occhiata ora alla “Risk List” di NEODyS-2 (http://newton.dm.unipi.it/neodys2/) redatta dai ricercatori italiani, che mostra tutti i casi conosciuti di possibili impatti (309) tra gli asteroidi già scoperti, capiremo meglio la faccenda. Consideriamo solo alcuni casi della Lista. Ci si rende subito conto che uno solo di questi casi è responsabile per quasi tutta la probabilità di impatto, l’oggetto 1994WR12 che ha un totale, su diversi anni, di una possibilità d’impatto su cinquemila. L’energia che tale impatto svilupperebbe corrisponde a 71 megaton. La conclusione è che il rischio per oggetti conosciuti corrisponde a 1/2000 del rischio di fondo da oggetti sconosciuti da 10 e più megatoni di energia. Se rifacciamo i calcoli su energie di 71 megaton (come nel caso di 1994 WR12) il risultato in qualche modo sale e il rischio di fondo per i prossimi 80 anni diventa circa 1 su 12, di cui quello per oggetti già conosciuti è circa 1 su 400.
Secondo i planetologi e i cacciatori di asteroidi e comete potenzialmente mortali (ossia a carattere estintivo) per l’uomo sulla Terra, il fatto di non conoscere l’esistenza di un corpo cosmico tipo quello di Tunguska, con una significativa possibilità di impatto, non è poi molto positivo, ma incoraggiante. La domanda a questo punto è: perché non sappiamo niente sulla prossima Tunguska? Secondo gli scienziati, ci sono tre fattori che potrebbero contribuire a questo gap nella scoperta di impattori virtuali del tipo di Tunguska: potremmo essere stati incapaci di trovare gli impattori virtuali di asteroidi già scoperti; gli impattori virtuali ci sono, ma relativi a dati che non sono stati resi pubblici, e che quindi il sistema scientifico ufficiale non ha elaborato; gli scienziati stanno scoprendo solo una piccola parte degli asteroidi di queste dimensioni. Naturalmente tutti e tre i fattori sono rilevanti. Ma qual è il più importante?
Forse il primo fattore. Il software “Clomon” era stato progettato per trovare tutti gli impattori virtuali con probabilità di 1 su un milione e oltre. All’inizio delle operazioni, nel novembre 1999, il monitoraggio si limitava a un periodo di 50 anni. Solo recentemente è stato esteso il periodo a 80 anni. Per la verità, nel caso migliore della “Risk Page”, per l’oggetto 1994 WR12, i ricercatori non hanno rilevato nessuna possibilità d’impatto entro il 2050: il meno improbabile riguarda l’anno 2074. Perciò esso era apparso nella “Risk Page” solo come risultato di un nuovo calcolo, fatto con un software migliore e analizzandolo su di un più esteso periodo di tempo. Ciò non è stato fatto negli altri casi per mancanza di risorse umane e di mezzi di calcolo. E per i molti casi che sono stati ricalcolati sugli 80 anni, gli scienziati forse sospettano che un impatto di probabilità significativa possa loro sfuggire? La risposta non è così precisa come la vorremmo. I ricercatori non hanno mai preteso che il loro sistema di rilevamento degli impatti fosse completo; si occupano di tutti i casi per i quali dispongono di una teoria dinamica applicabile. Ci sono ragioni per sospettare che, in casi rari, i ritorni interrotti di corpi celesti possono risultare in probabilità di un ordine di grandezza maggiore di quelli relativi agli altri casi trovati per lo stesso oggetto. Il problema è che non possono escludere questi casi rari. Debbono tener conto del fatto che stanno cercando un caso realmente eccezionale. La probabilità di fondo non è in nessun modo distribuita uniformemente tra i molti asteroidi di una data grandezza che viaggiano su orbite vicine alla Terra: essa si concentra su pochi oggetti con orbite peculiari, orbite dalla bassa inclinazione, con perielio (o afelio) di circa una Unità Astronomica (la distanza Terra-Sole) e vicini a risonanze con la Terra. Il secondo punto debole del sistema di monitoraggio attuale è la disponibilità dei dati. NEODyS si occupava solo degli oggetti che erano stati classificati come “Near Earth Asteroids” dal Minor Planet Center. Solo per i NEA “ufficiali” i dati osservativi erano disponibili quotidianamente, spediti dal MPC via e-mail. Per tutti gli altri asteroidi i dati venivano pubblicati una volta al mese, e solo se le osservazioni erano state fatte per più di una notte. Infatti la lista dei NEA (la definizione formale è che si tratta di asteroidi con il perielio q < 1. 3 UA) di cui si occupano gli studiosi italiani è alquanto diversa da quella del Minor Placet Center. Il che non significa che una delle due liste sia sbagliata. Se un asteroide è stato osservato solo poche volte, diciamo solo in due notti, l’orbita calcolata è troppo incerta. In altre parole, dire che quel oggetto è un NEA sarebbe come fare un’affermazione probabilistica. Scienziati come il dott. Claudio Bonanno hanno calcolato quanti asteroidi potrebbero essere non solo NEA ma “PHA”, Potencially Hazardous Asteroid, ossia “asteroidi killer”, se la distanza tra le loro orbite e quella della Terra è meno di 0.005 U.A., senza però essere sulla lista ufficiale del MPC: il risultato è di diverse migliaia! Ma quello che importa è stimare il numero totale che ci si aspetta, se prendiamo in considerazione la probabilità che ciascun oggetto sia effettivamente un “PHA”: il risultato è più di 100 oggetti. I nostri astronomi potrebbero, in via di principio, includere questi PHA virtuali nel loro sistema di monitoraggio, ma esso non offrirebbe loro informazioni attendibili. Se un asteroide non è un NEA per il MPC, i dati osservativi sui cui i nostri scienziati baserebbero le loro predizioni di possibili impatti, potrebbero essere incompleti. E finirebbero per sollevare allarmi su un asteroide che magari nel frattempo è già stato nuovamente osservato. Poi ci sarebbero altri “PHA” virtuali, nascosti tra quelli riguardanti oggetti osservati una sola volta, che non vengono mai pubblicati dal MPC. Infine, gli scienziati analizzano la possibilità che l’oggetto che provocherà la prossima Tunguska non sia proprio stato scoperto. Il dott. Alan Harris (Jet Propulsion Laboratory, California, USA) aveva pubblicato nella raccolta degli interventi al convegno su Tunguska del 1996 (Planetary and Space Sciences, vol. 46, 1998, pag. 283-290), un’analisi dettagliata del livello di completezza raggiungibile come funzione della magnitudine raggiungibile e della durata della ricerca, oltre che alla taglia dell’asteroide. Il dott. Harris affermò che questi calcoli dovrebbero essere leggermente rivisti: sono il risultato di un’analisi teorica che andrebbe rifinita tenendo conto dell’esperienza accumulata da quando l’articolo è stato scritto (specialmente dall’esperienza dei Progetti LINEAR, LONEOS e Catalina). Secondo il modello di Harris, perfino un’ipotetica sorveglianza di Spaceguard che controllasse tutto il cielo buio per magnitudini fino alla 22, potrebbe rilevare circa il 20% di tutti i NEA sui 100 metri, in 10 anni. Fino a poco tempo fa il livello di completezza raggiungibile per magnitudine di circa 19, era inferiore a 1 ogni 1000, in dieci anni. Dal momento che i principali centri di ricerca dei NEO sono operativi da pochi anni (da includere la Stazione astronomica di Campo Imperatore sul Gran Sasso e l’Osservatorio Astronomico di Teramo), forse il fatto di trovare solo probabilità nell’ordine di 1 su 5000 per gli oggetti conosciuti, di contro a una probabilità d’impatto calcolata per l’intera popolazione di quella classe di oggetti vicina al 100% nel XXI Secolo, è esattamente il risultato che dovevamo aspettarci. La conclusione, per chi ha avuto la pazienza di seguirci, è che gli scienziati non conoscono il prossimo oggetto impattore (asteroide o cometa) tipo Tunguska, perché semplicemente non lo stanno cercando. I gap nel nostro sistema di monitoraggio degli oggetti e di diffusione delle informazioni, per quanto gravi, non costituiscono il fattore decisivo. Vale la pena porsi allora la domanda inversa: cosa dovrebbero fare i ricercatori se l’obiettivo dei nostri scienziati fosse quello di trovare il prossimo impattore della classe di Tunguska prima che ci colpisca? Il dott. Harris se lo è chiesto nel suo articolo del 1998: per scoprire il prossimo Tunguska, diciamo con il 90% delle possibilità, dovremmo avere una ricerca completa del cielo per la magnitudine 21, inquinamento luminoso permettendo. Naturalmente, “tale operazione dovrebbe andare avanti per qualche secolo prima di raggiungere l’obiettivo”. Sono le parole del dott. Harris. Il che solleva le questioni della motivazione necessaria (Politica, Giuridica e di Protezione Civile) a sostegno di una ricerca così sofisticata e costosa, quando l’obiettivo quasi certamente non può essere raggiunto nel corso della vita di coloro che darebbero il via al progetto e, naturalmente, dei Lettori e dei loro nipoti. L’asteroide 99942 Apophis il 13 aprile 2036 (http://it.wikipedia.org/wiki/99942_Apophis) ci passerà molto vicino ma i calcoli, sempre più raffinati, indicano un rischio d’impatto quasi nullo. Mai dire mai. Soprattutto se, da bravi cultori delle scienze e da naturalisti, abbiamo a cuore la vita dei nostri discendenti sul pianeta Terra. Un evento estintivo epocale (www.youtube.com/watch?v=DDVH0OxrOYQ&feature=related) da impatto cosmico su scala planetaria, potrebbe essere inevitabile dopo 65 milioni di anni. Magari sarà scoperto solo poche settimane prima della catastrofe! Allora ben poco potremo fare per salvare la vita così come la conosciamo oggi sul nostro pianeta azzurro. Tutti i film finora prodotti sul tema hanno miseramente fallito. Incrociamo le dita, svegliamo i nostri politici, accogliamo le richieste del fisico Stephen Hawking (autore de “Il Grande Disegno”) sull’urgenza di sviluppare tecnologie che consentano a tutti di poter lasciare il pianeta il prima possibile e che Dio ci assista!
Nicola Facciolini
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