I re dei venditori, colui che ha inventato la politica spettacolo e il megalomane che ha commissionato allo scultore Pietro Cascella una tomba di famiglia, in cui oltre al sarcofago personale ci sono loculi per i fedelissimi: Fede, Previti, Dell’Utri, Confalonieri, voleva una acclamazione con brindisi, ma Verdini lo ha richiamato alla formale necessità di un voto. E’ andata così la nomina ufficiale del delfino Alfano alla guida della segreteria del Pdl, fase definita “2” di un partito monarchico in cui troppe cose restano ambigue, accennate e non esplicitate. Nell’Auditorium che un tempo ospitava i concerti di Herbert von Karajan e che ormai è diventato il teatro del Pdl (un anno fa qui si consumò il famoso “Mi cacci?” di Fini) la cerimonia dell’incoronazione di Angiolino è durata poco più di un’ora, con il quarantenne siciliano eletto vicerè, ma da ancora del lei al vero monarca. E’ il nuovo vicecapo Alfano, ma circa i suoi reali poteri ancora ci si interroga, dato che il designatore, Berlusconi, ha sempre creduto nella rappresentazione e mai nella rappresentanza. Certo la novità c’è ed è grossa, soprattutto dato che la storia di Alfano è opposta a quella dell’imprenditore che gli ha “concesso” il partito: figlio di un democristiano fanfaniano di Agrigento, uomo che in vita sua ha fatto soltanto politica, professionista del ramo, che non dirà mai di “aver dovuto bere l’amaro calice”, come fece il suo mentore Berlusconi. Per dirla con una deliziosa battuta del ministro Gianfranco Rotondi all’uscita dall’Auditorium: “Un Forlani tecnologico”, insomma, alla guida di un partito che è e resta soprattutto un club. Nel suo discorso di “incoronazione” Alfano (come al solito) è stato bravo e prudente. Non ha parlato né di Bossi né di manovra economica, ma solo di partito, dicendo che deve guardare con interesse al’UDC ed avere come ispirazione il PPE. Abile nel dosare sostantivi, citazioni ed elogi, Alfano si è “perso”, una volta sola, quando si è addentrato sul terreno scivoloso dell’eredità del Cavaliere, usando un lessico crudo “il testamento politico” di Berlusconi), anche se poi, intuita la gaffe, si è corretto: “Noi non abbiamo bisogno di eredità o di lasciti: abbiamo bisogno del sorriso, dell’entusiasmo del presidente: lei vincerà ancora una volta le elezioni del 2013”. Non ha rettificato, invece, parlando di talento e meritocrazia, anche con la Minetti in prima fila e con lo scopo di richiamare alla necessità di correggere e con urgenza, certe storture del partito. Certo per Angiolino i momenti difficili cominciano ora e qualunque sia la sua linea di condotta. Se sarà troppo simile a Berlusconi verrà accusato, come a fatto Granata del Fli, di esserne il “ventriloquo”, se invece se ne distanzierà, in caso di sconfitta elettorale, sarà bruciato sotto il profilo politico, come accaduto, ad esempio, ai vari segretari socialisti del distanziamento da Craxi dopo “Mani Pulite”. Chi mostra fai play nei suoi confronti, inaspettatamente, è Antonio Di Pietro, che ha detto: “Non ho condiviso né condivido nulla dell’attività politica e ministeriale dell’onorevole Angelino Alfano, ma egli oggi, piaccia o non piaccia, ha assunto, per decisione unanime degli organi a ciò preposti, formalmente, politicamente e giuridicamente la direzione di un partito italiano presente in Parlamento e tutelato dalla Costituzione. Siamo in e di ciò va preso atto e dato rispetto”. Molto più possibilista di Bersani che invece ha malevolmente commentato: che non si “conosce al mondo un partito che elegge un segretario con un applauso”. Come scrive Marco Gorra su Libero, le sfide immediate di Alfano sono due ed entrambe perigliose. La prima è quella relativa al partito. Perché sotto i sorrisoni sfoggiati all’Auditorium della Conciliazione (mai nome fu più appropriato) covano sentimenti assai meno pacifici. E Alfano ha mostrato di averlo capito alla perfezione: l’affondo contro le liste Coca Cola (ogni riferimento all’esperimento di Renata Polverini è puramente non casuale) lo dimostra. Col riferimento all’anarchia che regna in diverse zone del Pdl, Alfano ha inteso mandare un chiaro mssaggio a uso interno: il Pdl non è la Jugoslavia e Berlusconi non è il maresciallo Tito. Se c’è qualcuno che pensa di sfruttare il momento attuale per tentare volate in solitaria, sappia che non avrà vita facile. La seconda sfida è, invece, rivolta all’esterno. Al centro, più precisamente. Perché Alfano, formazione democristiana e solide credenziali di moderato, è chiamato ad attuare la strategia dell’attenzione nei confronti del terzo polo. E terzo polo significa Udc. Non è un mistero che il Guardasigilli a via Due macelli (anche qui nome evocativo) goda di stima sconosciuta al resto del vertice del Pdl, e c’è chi giura che la pregiudiziale antiberlusconiana che fino ad ora ha tenuto il partito di Pier Ferdinando Casini all’opposizione risulti parecchio – forse fatalmente – indebolita dall’insediamento di Alfano. E, in prospettiva 2013, la partita dell’allargamento al centro della coalizione è vitale. Insomma avrà molto su cui riflettere e pensare lo scafato Angiolino, costruito dalla lunga scuola di navigazione fra sponde irte di scoglie, che gli viene dal padre, anche perché, dietro ai sorrisi e alle strette di mano, personaggi come Alemanno o Scaiola, non hanno rinunciato, ma solo rinviato le ostilità.
Carlo Di Stanislao
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