La montagna ha partorito il topolino, un topolino che giudica la situazione economica italiana con un tale ottimismo da essere definito “alieno” da “l’Unità”, ma anche “caw-boy” che si sente in grado di domare la recessione internazionale, dal giornale amico “Libero”. L’unico picco di vivacità, in un discorso letto in poco più di mezz’ora, iniziato prudentemente pochi minuti dopo la chiusura dei mercati e punteggiato da pochi applausi e pochi fischi, è stato quando, inviperito dalle dimostrazioni di fastidio delle opposizioni, Berlusconi ha detto: “State ascoltando un imprenditore che ha tre aziende in Borsa e che quindi è nella trincea finanziaria, consapevole ogni giorno di quel che accade sui mercati”. Per il resto puro ottimismo e niente patrimoniale o tagli draconiani, niente correttivi sui costi della politica e solo un sospiro finale, quando dice che “nessuno nega la crisi”, ma che l’Italia è solida e può certamente farcela. Braccio teso alle parti sociali a cui chiede un’intesa su quattro punti: gestione della manovra, investimenti sulle infrastrutture, ruolo delle banche e relazioni industriali. E invoca la riforma dello “Statuto del lavoro”, che certamente il governo farà da qui al 2013, “per “consegnare agli italiani un Paese più forte e sicuro di sé”. Poi segue il dibattito, con sponda amica di Casini, con il battesimo del neosegretario Alfano e anche con la stretta di mano al nemico Fini. Di seguito di corsa al Senato, dove pronuncia le stesse parole e spande lo stesso ottimismo, rispondendo all’opposizione, che gli chiede molto educatamente come mai il nostro Paese appaia così poco brillante: “Abbiamo il quarto debito del mondo ed è un’eredità consegnata dai governi precedenti che negli Anni 80 hanno moltiplicato il debito”. Sia alla Camera che al Senato, Berlusconi ha parlato delle banche sostenendo che sono liquide e solvibili, della manovra approvata dal governo che ha assicurato l’obiettivo del pareggio, della solidità del sistema politico e dell’importanza della coesione, soprattutto in momenti difficili, come sottolineato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che adesso è tornato utile chiamare in causa. Ha anche parlato della delega fiscale, dicendo che è necessario attuarla in tempi brevi e ha citato lo sblocco dei fondi del Cipe, riferendosi in particolar modo alle opere infrastrutturali da realizzare al Sud, facendo poi sapere di aver firmato due decreti relativi al tetto europeo agli stipendi di eletti e vertici amministrativi e ai limiti all’utilizzo di auto blu. Cosa davvero di poco conto, come stamani notava Cacciari a Rainews24, rispetto ai molti miliardi che si potrebbero risparmiare chiudendo le Provincie e dimezzando il numero dei parlamentari. Ma, se dietro le parole del Cav. c’è, come scrivono un molti, il vuoto assoluto, è evidente anche il vuoto pneumatico delle opposizioni circa politica economica,estera e del lavoro. Dice bene Cacciari, individuare una linea chiara sui punti cruciali appena citati nel Pd, è davvero un’operazione impossibile. Ma torniamo a Berlusconi e al fatto che, secondo lui, i fondamentali della nostra economia sono solidi. In realtà è facile smentirlo poiché i conti pubblici sono un disastro e mentre le politiche iniziate dal governo Prodi ci avrebbero portato al pareggio di bilancio a dicembre 2008, ora abbiamo un deficit di 60 miliardi di euro. La crescita prevista dal governo, prima della manovra finanziaria approvata a luglio, era compresa tra l’1% del 2011 e l’1,6% del 2016. Con la manovra, ogni anno tra il 2011 e il 2014 ci sarà un taglio della crescita previsto tra lo 0,2% del 2011 e lo 0,8% del 2014. Il che vuole dire che nei prossimi quattro anni avremo una crescita sistematicamente sotto l’1%, mentre questa manovra appena approvata può raggiungere il pareggio di bilancio solo a condizione di avere una crescita media del 2% all’anno. Allora l’occupazione? Certo, se guardiamo i dati Istat possiamo essere felici, la disoccupazione è all’8%, al di sotto della media europea. Ma l’Istat purtroppo ha categorie che risalgono agli anni ’70; oggi non si può considerare equivalente un parlamentare che prende 20 mila euro al mese netti e un giovane con un contratto trimestrale da 500 euro al mese. Invece è quello che fa l’Istat, che li considera entrambi occupati a tempo pieno. Se invece andiamo a guardare un altro dato, quello degli occupati (cioè la percentuale delle persone che lavorano rispetto alla popolazione totale in etàè da lavoro), scopriamo che noi siamo quasi ultimi in Europa, con il 54%, più o meno al livello della Spagna. E questo è davvero preoccupante. Secondo Berlusconi, al solito, il Pdl (con la Lega) ha dimostrato di essere la migliore strategia di governo, a fronte di una opposizione che non ha mai fatto alcuna concreta proposta. Questa cosa è abbastanza vera, ma è più vero che questo governo, adesso più che mai, si dimostra decotto e senza alcuna speranza. E se regge è solo perché, scrive Antonio Rispoli, ci sono circa 400 tra deputati e senatori che se vanno a casa adesso non potranno avere il vitalizio, e quindi reggono la legislatura solo per questo. E c’è lo stesso Berlusconi, che vuole usare, ancora una volta, il proprio potere per bloccare i processi che lo riguardano, per esempio approvando il cosiddetto “processo lungo”. Il fatto che quel processo manderà in prescrizione l’80-90% dei processi (persino se sono accusato di omicidio ma ho i soldi per pagare l’avvocato, posso evitare la galera, chiamando a testimoniare 100 mila persone ed impedendo che il processo vada a conclusione) e gli unici condannati saranno i poveri cristi e gli extracomunitari, cioè coloro che non possono pagarsi l’avvocato. Invece pedofili, stupratori, mafiosi, schiavisti e così via non andranno mai in galera. Si dice soddisfatto Berlusconi che oggi affronta i rappresentanti sociali ed appare non meno sereno di Barack Obama, che nel giorno del suo compleanno, incassa la prima risalita di Wall Street dopo l’approvazione della legge sul debito pubblico. Ma, mentre gli Usa hanno ragione di gioire con il loro presidente, non vedo motivi di gioia per noi italiani. “Gli italiani non cedettero a Craxi, ma a Berlusconi oggi credono”, scrisse a gennaio dello scorso anno Stefania Craxi, proponendo il teorema della perfetta identità fra la persecuzione politico-giudiziaria di cui sarebbe stato vittima suo padre nel ’93 e quella di cui sarebbe vittima oggi Silvio Berlusconi. ‘ un teorema che merita di essere valutato attentamente. Non tanto per l’equazione su cui si basa e che è contestabile punto per punto – uguali le vittime, uguali i magistrati persecutori, uguali i mandanti, uguale il diritto dei due leader di sfuggire al processo -, quanto per la genealogia politica che costruisce. Se c’è un tratto che accomuna Craxi e Berlusconi è precisamente l’assenza, in entrambi, di una genealogia di riferimento: i due «uomini nuovi» – il socialista eccentrico emerso oltre e contro la tradizione socialista, che per primo propose una frattura nella continuità costituzionale, e il Cavaliere venuto dal nulla, che da quindici anni combatte per fratturarla definitivamente – diventano ora i capostipiti di una tradizione politica a venire, di un culto da onorare, di una storia da proseguire? Ovviamente non si tratta di un’invenzione di Stefania Craxi. Delle continuità politiche fra Craxi e Berlusconi, al di là del loro noto legame di amicizia e di sostegno, è fatta la storia dell’ultimo ventennio, ed è piena la saggistica relativa. E fu lo stesso Berlusconi, in occasione del secondo anniversario della morte di Craxi, a farsene dichiaratamente erede e continuatore, celebrando nel leader socialista “l’uomo forte d’Europa”, il premier “che sfidò il sindacato classista” e “vide per primo la crisi dell’Urss”, il modernizzatore che buttò a mare «le nefandezze del marxismo» , lanciò il made in Italy e fiutò le magnifiche sorti della tv commerciale, il “figlio del sistema di regole della Costituzione” che per primo ebbe l’ardire di proporne la Grande Riforma. Già allora Berlusconi provò a chiudere il cerchio della transizione italiana mettendo in primo piano il genio politico di Craxi e derubricando a peccato veniale “di tutto il sistema” i suoi reati di corruzione. Oggi la strategia si ribalta: in primo piano torna il protagonista della vicenda giudiziaria, ma come vittima. In realtà, la storia di Berlusconi, come scrisse un anno fa sul “Manifesto” Ida Dominijanni, è una parabola che ci riguarda tutti, che parla di no, i di quello che è venuto dopo Craxi, in mancanza di una elaborazione del craxismo. E annuncia quello che potrà accadere in futuro, dopo Berlusconi, in mancanza di una elaborazione del berlusconismo. Il che dice non solo e non tanto delle continuità fra Craxi e Berlusconi, ma di coloro che avrebbero dovuto contrastarli. Va detto con chiarezza (ed anche con amarezza), alla luce di quanto accaduto nei fatti, che il sistema corrotto e corruttore esaltata da Craxi, ha garantito la dottrina Mitterand e la Sugarco casa editrice di De Michelis. E, ancora, gli attacchi al PCI, sono stati non solo colpevoli del tentato compromesso storico, ma diventati l’autonomia operaia francese, nietscheiana cioè individualista. Gli anni ottanta sono stati gli anni del pentitismo e della dissociazione. Sofri li ha guidati sostenendo il riflusso ideologico. Tutto questo bailamme ha favorito il peggior privato e per lo stato è stato più nocivo e devastante di Totò Riina. Il nostro debito è colpa di quegli anni: una pornocraxia con corruzione dei costumi ed il convincimento che se si guadagnavano meno di cinque milioni si era un fallito. Ciò che nel craxismo risulta peculiare è la modalità con cui questo mito viene coniugato con quel vuoto individualismo che caratterizzò la stagione del rampantismo e degli yuppies. E’ stato un pessimo modo di tradurre e importare modelli culturali americani, che in fondo servivano solo ad alimentare un consumo più dinamico che consentisse una produzione sempre maggiore. Ed oggi, riflettendo a ritroso su questo, mi chiedo anche se esista un filone storiografico o giornalistico serio che abbia dimostrato l’esistenza, nell’ambito della magistratura all’inizio degli anni ’90, di una volontà politica di sovvertire il quadro politico dominante (il CAF). Cioé se corrisponda, anche solo in parte, al vero la teoria della rivoluzione giudiziaria (mancata), ovvero di un compito specifico che una componente della magistratura si attribuì per favorire il ricambio politico nel paese.
Carlo Di Stanislao
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