Perdonanza Celestiniana: Comastri apre la porta Santa, il saluto di Molinari

Con i tre colpi rituali, il cardinale Angelo Comastri, vicario generale di Papa Benedetto XVI per la Città del Vaticano, ha aperto la porta Santa, spalancando l’entrata della Basilica di Collemaggio a migliaia di fedeli riuniti all’Aquila in occasione della 717/a Perdonanza Celestiniana. L’emozionante momento ha svelato l’interno di una chiesa costretta per la terza […]

Con i tre colpi rituali, il cardinale Angelo Comastri, vicario generale di Papa Benedetto XVI per la Città del Vaticano, ha aperto la porta Santa, spalancando l’entrata della Basilica di Collemaggio a migliaia di fedeli riuniti all’Aquila in occasione della 717/a Perdonanza Celestiniana. L’emozionante momento ha svelato l’interno di una chiesa costretta per la terza volta a presentarsi a questo importante appuntamento con i segni del sisma che l’ha colpita il 6 aprile 2009. Come da tradizione l’apertura della porta Santa è stata anticipata dal corteo storico che ha accompagnato la bolla di papa Celestino, e alla quale hanno preso parte il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e il presidente della Regione e commissario per la ricostruzione Gianni Chiodi.

L’Arcivescovo metropolita Giuseppe Molinari ha salutato il cardinale Comastri  nella celebrazione eucaristica con queste parole:

Eminenza Carissima,

grazie perché ha accettato di venire tra noi per questa grande festa della Perdonanza.

Rileggendo il suo libro su Giovanni Paolo II (“Nel cuore del mondo”) mi ha colpito un suo ricordo personale, quella sua visita al Papa morente. Lei racconta della telefonata di Mons. Stanislaw Dziwisz: “Il Papa sta morendo! Se vuole venga a salutarlo e a ricevere la sua ultima benedizione”. Poi il momento più emozionante, mentre stava accanto al letto del Papa agonizzante: «Il segretario del Santo Padre toccò il braccio del Papa e, indicando la mia persona, disse: “Padre Santo, c’è qui Loreto!” il Papa apri gli occhi, mi guardò e poi con voce flebile sussurrò: “No, San Pietro!”. Ebbi un brivido: il Papa mi aveva riconosciuto. Allora ebbi la forza di dire: “Padre Santo, sto per iniziare il mio servizio a San Pietro dove Vostra Santità mi ha chiamato. Mi benedica!”. Il Papa aprì gli occhi, mi guardò con affetto paterno e tentò di alzare la mano destra, che era incredibilmente gonfia per le complicazioni renali. La mano ricadde pesantemente sul letto, ma dal cuore del Papa era partita una benedizione: quella benedizione fu l’ultimo preziosissimo regalo per me».

Eminenza Carissima, siamo certi che questa sera porterà anche a noi un po’ di quella benedizione, del nuovo Beato Giovanni Paolo II, che tanto ha amato le nostre montagne. Ma questa sera ci porterà anche la benedizione del Suo successore Papa Benedetto, che Lei continua a servire con tanta devozione e generosità.

E’ veramente un privilegio grande essere accanto al Santo Padre, nel cuore della cristianità.

Ma nel suo libro che ho appena citato, mi ha poi colpito, tra l’altro, il capitolo su “Il secolo XX, secolo dell’ateismo di massa”. E Lei racconta di quelle indimenticabili parole di Giovanni Paolo II alla Chiesa e al mondo intero: “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!”. E Lei giustamente annota: “Giovanni Paolo II conosceva le porte chiuse; aveva sperimentato la persecuzione della fede cristiana; aveva visto le porte sbarrate delle Chiese e aveva sentito il fremito missionario di Paolo, che voleva aprire a Cristo le strade di tutto il mondo”.

L’ateismo. Lei cita una coraggiosa affermazione ( cara anche a Giovanni Paolo II) del grande cristiano Dostoevskiy (nell’opera “I fratelli Karamazov”): “Pensano (gli atei) di ordinare il mondo secondo giustizia, ma una volta respinto Cristo finiranno con l’inondare il mondo di sangue perché sangue chiama sangue; e chi sguaina la spada perirà di spada […] E’ proprio quello che accadrebbe se non ci fosse la promessa di Cristo di abbreviare quei giorni per amore degli umili e dei mansueti”.

Il neoateismo sostiene che: Dio non esiste: infatti, chi lo ha mai visto?

Dio è soltanto una proiezione dell’uomo quindi è inutile.

L’uomo ha avuto origine dal regno animale: allora perché cercare un Creatore?

Il bene è il risultato dell’evoluzione dell’uomo: dunque si può essere buoni senza Dio.

Nel mondo esiste il dolore: la fede pertanto è ridicola.

Le religioni generano violenza: meglio evitarle.

L’immagine del Dio biblico è primitiva e ripugnante: non insegnarla ai bambini.

L’idea dell’aldilà paralizza l’attività umana: siamo noi che trasformiamo il mondo.

Con queste tesi del nuovo ateismo (di moda tra l’aria sussiegosa e la risata furbesca, entrambe plebee e fastidiose, di certi conduttori televisivi!) si comprende il grido blasfemo dello psichiatra di S. Pietroburgo: “Chi crede in Dio è un pazzo e bisogna metterlo in manicomio”.

E viene alla mente ciò che racconta Chesterton: «Ricordo che una volta stavo passeggiando con un facoltoso editore, il quale fece un’osservazione che avevo già sentito in altre occasioni; si tratta, in effetti, quasi di un motto del mondo moderno. Eppure, sentendola una volta di troppo, mi resi improvvisamente conto che essa era futile. L’editore disse di qualcuno: ” Quell’uomo farà strada perché crede in se stesso. […] Gli dissi: “Vuole che le dica dove si trovano gli uomini che più credono in se stessi? Perchè glielo posso dire. So di uomini che credono in se stessi in maniera più smisurata di Napoleone o Cesare. Io so dove brucia la stella fissa della sicurezza e del successo. La posso guidare verso i troni dei Superuomini. Gli uomini che davvero credono in se stessi stanno nei manicomi” ».

E Chesterton continua con la sua spietata ironia:

«L’immaginazione non genera pazzia.

Ciò che genera pazzia è proprio la ragione.

I poeti non diventano dei pazzi ma i giocatori di scacchi si.

I matematici diventano dei pazzi e i cassieri lo stesso.

Ma gli artisti creativi assai raramente». (Cfr. Ortodossia).

E io aggiungo: I Santi non diventano mai dei pazzi. Sono i più saggi della terra. Come San Celestino.

Eminenza Carissima, Lei sa meglio di me che oggi il pericolo più grande per il nostro popolo è perdere la fede ed entrare nel tunnel doloroso e insopportabile dell’ateismo.

Lei, Eminenza, questa sera, vedrà un popolo che crede ancora a Gesù e alle Sue parole.

E l’amore a San Celestino e alla Sua Perdonanza porta ogni volta questo popolo a riscoprire le sorgenti limpide e vivificanti della fede.

Preghi per noi, Eminenza, questa sera. Perché per intercessione di S. Celestino questa fede non venga mai meno, ma rimanga sempre rocciosa e sicura come le nostre montagne, come il nostro Gran Sasso.

Con questa fede ritroviamo il rapporto con Dio e con i fratelli.

E tutto il resto si ricompone in una mirabile armonia.

Quell’armonia che sempre ha guidato il cammino di Celestino, umile eremita, povero e penitente, incredibilmente assetato di Dio e per questo pieno di commovente amore per i fratelli, apostolo di pace e di riconciliazione.

San Celestino ci aiuti a ritrovare Dio ogni giorno, ogni momento. E a non perdere mai questo unico immenso tesoro!

Grazie, Eminenza!

Il cardinale Angelo Comastri, ha detto: “Nel 1215, quando nacque Pietro Angeleri, il futuro Celestino V, era ancora vivo S. Francesco d’Assisi. I due Santi non si incontrarono mai, però l’eremita del Monte Morrone respirò il clima spirituale creato dal Poverello di Assisi, che scosse la società del suo tempo sposando “Madonna Povertà” e scegliendo – come scrive l’autore della “Leggenda Perugina” – il privilegio di non aver alcun privilegio in questo mondo.
Umanamente parlando, Francesco poteva considerarsi un figlio fortunato, perché suo padre era un ricco e affermato mercante: ma Francesco capì che la felicità non si compra con i soldi e il vero potere non è quello fugace dei potenti di questo mondo.
Francesco capì che l’unica vera ricchezza dell’uomo è Dio e ne tirò le conseguenze. S. Bonaventura, che fu contemporaneo di Pietro da Morrone, scrive:
“Nessuno fu più avido d’oro, quanto Francesco fu avido di povertà”.
Pietro da Morrone fu in perfetta sintonia con questa visione evangelica della vita e, proprio per questo, egli ha lasciato un solco profondo nella storia. E osservate: i potenti del suo tempo sono stati tutti dimenticati, ma l’umile eremita, diventato pontefice per poco più di cinque mesi, ancora fa parlare, ancora insegna, ancora mette in crisi le coscienze e, con il suo esempio, ci invita a mettere al centro della nostra esistenza l’imitazione di Cristo, perché un giorno saremo tutti pesati con la bilancia inappellabile del Suo Evangelo.

Pietro da Morrone – come tutti sapete – inaspettatamente venne eletto Papa il 5 luglio 1294 e il 29 agosto venne incoronato pontefice in questa Basilica di S. Maria di Collemaggio.
Certamente egli si domandò: quale regalo posso lasciare a questa amata città? Quale ricordo posso legare all’avvenimento dell’inizio del pontificato?
Non ebbe dubbi: lasciò la Perdonanza, lasciò una straordinaria opportunità di rinnovamento spirituale attraverso l’invocazione del Perdono di Dio.
Cerchiamo di entrare nel cuore di Celestino V per capire il senso di questo preziosissimo dono. Chiediamoci: cos’è che rende cattivi gli uomini? Cos’è che li rende egoisti e rapaci? Cos’è che fa scoppiare le guerre e la violenza? Cos’è che spezza i vincoli indispensabili della fedeltà? Cos’è che infanga la bellezza dell’amore? Cos’è che distrugge la pace nel cuore e nel mondo? Cos’è che rende omicida la mano degli uomini, quella mano che Dio ci ha donato per soccorrere e per asciugare lacrime e per esprimere amore e amicizia?
Le domande potrebbero continuare, ma la risposta sarebbe sempre identica: l’infezione che ci rende cattivi e infelici è il peccato! Perché il peccato ci stacca da Dio e ci getta nella povertà pericolosissima del vuoto e della privazione dolorosa del senso della vita.

Madre Teresa di Calcutta, donna santa e donna saggia, spesso diceva: “Non dimenticate che il male è male, perché fa male; e il bene è bene perché fa bene”. Celestino V sapeva tutto questo e, pertanto, volle lasciare come ricordo a questa città “la festa preziosa del Perdono”.

Oggi, purtroppo, molti non capiscono più quale forza devastante possieda il peccato, perché non capiscono più il valore insostituibile di Dio.
Paradossalmente un ateo accanito come Federico Nietzsche, nel 1882 nell’opera intitolata “La gaia scienza” dipinge con toni drammatici le conseguenze della “morte di Dio”.
Egli, con lucida onestà, si chiede: “Ma come abbiamo fatto? Come abbiamo potuto bere il mare? Chi ci ha dato la spugna per cancellare tutto l’orizzonte? Che cosa abbiamo fatto quando abbiamo sciolto la terra dalla catena del suo sole? In che direzione essa si muove adesso? In che direzione ci muoviamo noi? Non precipitiamo continuamente? Non vaghiamo come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non viene continuamente la notte e sempre più notte? Non bisogna accendere lanterne anche di mattina?”.
Federico Nietzsche descrive la situazione dell’uomo che ha rifiutato Dio, ma pretende di tenere in piedi il tetto della società togliendo la trave portante.
Già il profeta Isaia, rivolgendosi ad una società corrotta come la nostra, ammoniva:

“Voi confidate nella perversità e nella perfidia. Ma, così facendo, voi diventate come un muro nel quale si apre una profonda crepa e, all’improvviso, cade e va in frantumi” (cfr. Is 30,12-14).
E Geremia, con una sintesi veloce e impressionante,descrive il potere demolitore del peccato quando dice:
“Essi seguirono ciò che è vano – vuoto
e diventarono essi stessi vani – vuoti” (Ger 2,5).

Oggi non è difficile vedere gli effetti terribili del peccato: rifiutato Dio, dilaga la corruzione; rifiutato Dio, esplode l’egoismo e ci ferisce tutti; rifiutato Dio, la vita perde dignità e valore e, pertanto viene calpestata e aggredita; rifiutato Dio, non sappiamo più cos’è l’uomo e quale è lo scopo grande della sua vita.

Ecco, allora, l’appello della Perdonanza: ritorniamo al Signore, togliamo dal nostro cuore ogni spazio buio, battiamoci il petto con umiltà e invochiamo il perdono che ci rigenera e ci restituisce la pace e la gioia di vivere.

A Madre Teresa di Calcutta, pochi mesi prima della sua morte, chiesero: “Madre, qual è il giorno più bello della sua vita?”
Senza esitazione rispose: “Oggi, perché posso ancora riempirlo di bene. Quando morirò, porterò con me soltanto la valigia della carità: voglio riempirla, perché sono in tempo”.
Chiesero ancora: “Madre, quante persone ha reso felici con la sua carità?”
Rispose: “Non mi sono mai posta questa domanda e non voglio pormela. Però posso assicurarvi che, vivendo la carità, io ho trovato la mia felicità: siamo stati creati per fare il bene; e, soltanto facendo il bene, saremo felici!”.
Dio ci aiuti in questo santo giorno, per l’intercessione di S. Pietro Celestino, a ritornare nella via del Vangelo per costruire un mondo più bello e più giusto come tutti desideriamo!”

 

 

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