Elton Kalica: Il carcere ruba la vita

Tra poco me ne andrò e oggi una persona mi ha chiesto se so già chi occuperà la mia branda. È una certezza che i posti non rimangono mai vuoti, quindi il mio compagno di cella sa che non rimarrà solo. Proprio pochi giorni fa sono usciti due detenuti che conoscevo e poi, il giorno […]

Tra poco me ne andrò e oggi una persona mi ha chiesto se so già chi occuperà la mia branda. È una certezza che i posti non rimangono mai vuoti, quindi il mio compagno di cella sa che non rimarrà solo. Proprio pochi giorni fa sono usciti due detenuti che conoscevo e poi, il giorno dopo, mi è capitato di vedere due ragazzi percorrere il corridoio trascinando i sacchi neri di plastica, che solitamente ha chi arriva dalla vicina casa circondariale. Non so chi sono e cosa hanno fatto per finire qui. Ma sembrava che fossero lì con una missione: riempire i posti vuoti.

Si dice che questo sia un “carcere vivo”. Una metafora che esalta la presenza di attività, ma che stride con la visione che ho sempre avuto io, e ciò di un posto di non-vita. Un luogo in cui entrano i nostri corpi, che crescono, invecchiano, dimagriscono, ingrassano, si ammalano, si tagliano, soffrono, si feriscono, muoiono, ma le nostre vite si fermano alla porta, come un cappotto appeso che aspetta di essere indossato per dare un senso alla propria esistenza. L’altro giorno i giornali riportavano la decisione dei Tribunali di applicare meno la custodia cautelare in carcere, per via del sovraffollamento. Forse qui dentro è difficile accorgersi del calo di arresti, ma non ho motivo per non crederci. E dico: meno male. Non solo per quel principio antico di essere considerati innocenti fino alla condanna, ma soprattutto perché il carcere di Padova stava davvero scoppiando fino a poco tempo fa.

Avevano messo la terza branda in tutte le celle. In breve tempo tutti i posti creati si sono riempiti e allora avevano mandato i nuovi arrivati in infermeria, ad attendere in mezzo ai malati finché si fosse liberata qualche branda. Quando anche l’infermeria si era riempita, l’amministrazione aveva messo in atto un altro stratagemma: mettere a dormire i nuovi giunti nelle celle dei “permessanti”. Il che significa che, quando una persona riceveva l’autorizzazione del magistrato ad andare per qualche giorno a casa, nel frattempo la sua branda sarebbe stata data al nuovo arrivato.

Il ricordo è ancora vivo in molti di noi. Ecco perché spero tanto che non ritorni il sovraffollamento di allora. Non che adesso si stia larghi: le terze brande nelle celle singole ormai sono state saldate e riempite, ma almeno non c’è più gente che aspetta in corridoio.
Oggi ho rivisto dalla finestra della mia cella i due ragazzi arrivati l’altro giorno, all’ora d’aria. Camminavano spaesati, guardando i cinque piani di cemento armato che sovrastano la fila di cubicoli dei passeggi. Dato che la loro passeggiata animava il grigiore circostante mi è venuto il sospetto che forse ci sia davvero uno scopo ben preciso nella presenza di ognuno di noi qui dentro, quello di dare vita alle gabbie. Le nostre vite non ci aspettano fuori, questo mondo di cemento è vivo perché “ruba la vita” delle persone rinchiuse per la propria autoconservazione, in eterno, con la complicità dei corridoi che accompagnano i detenuti dentro e fuori con la loro roba chiusa in un sacco nero, nel silenzio del muro che vigila su questo mondo di sofferenze. Che sembra dover esistere sempre, perché nessuno ha il coraggio di pensare a una pena che sia diversa dalla galera.

Elton Kalica (in collaborazione con Ristretti Orizzonti)
*Elton è un 35 enne albanese, detenuto nel carcere Due Palazzi di Padova con una condanna a 14 anni e 8 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione (senza armi e durato due giorni). Il prossimo 25 ottobre finirà di scontare la sua pena e tornerà libero. Firma storica della rivista Ristretti Orizzonti, attende di sapere se sarà rimpatriato in Albania o se potrà restare in Italia e lavorare da esterno per Ristretti. Ha deciso di raccontare su “Redattore sociale” i suoi ultimi giorni dentro.

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