In Spagna vince la destra e in Italia si attende

E’ opinione diffusa, tra storici e politologi, il fatto che dalle crisi economiche si esca sempre da destra. Archiviati sette anni di Zapatero e di guida socialista, gli spagnoli hanno scelto, quasi in modo plebiscitario,  il popolare Mariano Rajoy, per risollevare le difficilissime sorti di una Nazione che, secondo il Financial Time, è il vero […]

E’ opinione diffusa, tra storici e politologi, il fatto che dalle crisi economiche si esca sempre da destra. Archiviati sette anni di Zapatero e di guida socialista, gli spagnoli hanno scelto, quasi in modo plebiscitario,  il popolare Mariano Rajoy, per risollevare le difficilissime sorti di una Nazione che, secondo il Financial Time, è il vero cancro capace di uccidere l’Europa. “Arrivano tempo difficili”, ha detto Rajoy, 56 anni, nel suo discorso per celebrare la vittoria, mentre i mercati finanziari vogliono sapere come aggredirà il forte deficit pubblico che minaccia di costringere la Spagna, quarta economia della zona euro, a ricorrere al salvataggio finanziario. Certamente, Zapatero e i socialisti spagnoli hanno pagato la colpa di avere perso tempo, puntando tutto sugli aspetti sociali e  sottovalutando quelli economici e finanziari, sicchè la crisi li ha colti impreparati. La ricetta Aznar puntava sugli investimenti in infrastrutture, sul patrimonio edilizio, sull’aumento dei posti nella pubblica amministrazione. Il miracolo c’è stato, ma è stato un miracolo a metà, poiché e da esso che è nata l bolla immobiliare che ha messo in ginocchio la Spagna. Zapatero non ha capito che non poteva durare, che doveva correggere gli errori di quella politica e l’esplosione della crisi internazionale gli ha presentato il conto. Ma, va riconosciuto che, a differenza delle economie di carta di Islanda e Irlanda, cadute dalle stelle alle stalle in seguito al collasso dei rispettivi settori bancari, il miracolo spagnolo era fondato su basi reali. La Spagna ha fatto passi da gigante in tutti i principali settori strategici: trasporti, comunicazioni, energia. Un progresso compiuto anche grazie ad un coscienzioso uso dei fondi strutturali europei, che dal 1987 (anno di ingresso nella CEE) al 2007 ha portato nelle casse di Madrid, in media, 6 miliardi di euro all’anno (circa un quarto di tutti i fondi europei di sviluppo). Grazie a tale sostegno il Paese ha realizzato grandiosi investimenti in infrastrutture. Oggi la Spagna può giovarsi di oltre 2.500 km di ferrovie ad alta velocità e oltre 13.000 km di autostrade, il doppio rispetto all’Italia. Negli ultimi trent’anni le utenze telefoniche sono triplicate, passando da 6 milioni a 18 milioni. La rete degli oleodotti è più che raddoppiata, passando da 1.300 km nel 1980 ai 4.000 km odierni; quella dei gasdotti, inesistente negli anni Settanta, si estende oggi per 27.000 km. L’errore di Zapatero è stato il ritardo sulle riforme, con perdita di competitività dell’intera Nazione. Di colpo la crisi immobiliare ha messo a nudo le carenze del sistema produttivo del Paese. Secondo Eurostat, la Spagna investe appena l’1,2% del PIL in ricerca e sviluppo, penalizzando così la crescita delle attività ad alto valore aggiunto. La produttività del lavoro è rimasta praticamente invariata (92% della media UE pre-allargamento). Quattro regioni (Andalusia, Catalogna, Madrid e Comunidad Valenciana) su diciassette producono i due terzi della ricchezza nazionale. La crescita degli ultimi 15 anni non ha colmato questo divario. Negli ultimi 15 anni si è registrato un notevole travaso migratorio dalle regioni economicamente più depresse a quelle più dinamiche. Il differenziale tra la locomotiva della Catalogna e il Sud del Paese, afflitto da una disoccupazione cronicamente elevata, non si è mai attenuato. Ora guiderà il nuovo governo un conservatore e, probabilmente, come accaduto in Grecia e Italia, si servirà di molti tecnocrati in ruoli-chiave. E, anche se in Spagna, nei   governi, ci sono sempre stati tecnocrati, come Solchaga, Boyer e Rato, va segnalato, con un certo allarme, che questa crisi ha convertito la costellazione di significati che ruotano attorno alla parola economia in una ideologia; una ideologia della paura, in base alla quale, oggi, l’economia è una istanza metafisica che si incarna in carne e sangue delle vittime. E senza via d’uscita. L’economia oggi è una teologia laica, con le sue cose buone, quelle cattive, le recriminazioni, i suoi inferni e i suoi limbi. E sappiamo che nulla è più pericoloso, nell’emergenza,  della metafisica, perché, in suo nome, tutti gli eccessi sono ammessi. Spinoza considerava il fine ultimo del libero pensiero,  la riforma dell’intelletto umano, una riforma che ci costringe a pensare da soli, senza la mediazione dalle autorità, e ci imponga di riconsiderare ciascuna delle verità apprese che ci dettano da subito. Ora, con questa crisi, la riforma si allontana e ci si costringe a pensare solo e soltanto in termini economici. In molti dicono che, con i governi tecnici, il capitalismo tenta di nascondere la polvere sotto il tappeto, facendo nascere la supremazia della finanza attraverso la tutela e  l’esplosione delle rendite immobiliari, finanziarie  e di posizione. Se scorriamo il curriculum di Mario Monti, non si può non vedere che in questi decenni tutto il suo impegno è stato in sintonia con le scelte di politica economica che hanno caratterizzato la stagione del neoliberismo. Privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, deregolamentazione del mondo del lavoro, cioè quelle politiche che – riducendo i diritti e impoverendo il lavoro – sono all’origine della attuale crisi. Tutti ora, da destra e sinistra, plaudono a lui e sostengono che bisogna lasciarlo lavorare, perché ha le competenze e le capacità per salvare l’Italia. Ma con quali termini e con quali sacrifici resta ancora da vedere. Mario Monti, come riporta anche Wikipedia, è “presidente europeo della Commissione Trilaterale, un gruppo di interesse di orientamento neoliberista fondato nel 1973 da David Rockefeller” nonché “membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg” ma anche “dal 2005 è international advisor per Goldman Sachs” e “advisor della Coca Cola Company”.  L’economista ha assicurato però, nei sui discorsi al Senato e alla Camera, che nei confronti dell’Italia non ci sono né “complotti internazionali” né “dei poteri forti”, anche se venire a conoscenza che è stato (o forse lo è ancora) un “member of the Senior European Advisory Council of Moody’s, come riporta anche una brochure del “European Academy of Business in Society 5th Annual Colloquium”, tenutosi l’11 e 12 settembre 2006 presso l’Università Bocconi di Milano. Ma, è possibile, che, da persona pratica ed intelligente, abbia considerato quanto accaduto nell’ultimo lustro e deciso di abbandonare il liberismo, per politiche anche economica di fatto più eque, giuste ed innovative.  In attesa, nel primo giorno di apertura ufficiale del suo iter, il governo Monti è salutato da una picchiata in partenza di Piazza Affari, con i titoli di stato che vedono allargare la forbice con i bund tedeschi ed anche nei confronti dei titoli spagnoli. Le Banche continuano la loro  la loro strada al  ribasso, giungendo verso declivi da precipizio, che gli analisti considerano da saldo rispetto al valore degli asset degli stessi istituti. E viene in mente che forse ha ragione Piero Angela che scrive, nel suo ultimo libro “A che serve la politica ?”, che la realtà non dipende che in parte dai governi e che questi non la cambiano per magia ed in automatico. Il  nostro Paese è diventata un sistema a circuito chiuso, dove rimangono imbrigliati anche i suoi uomini migliori, pieno, in tutti i campi, di talenti e di energie represse o non valorizzate, che attendono di essere liberate e di trovare il contesto giusto per potersi esprimere, per del tracollo totale. Sicché la sfiducia monta e si fa fortissima la tentazione di dire “basta”. In definitiva, da noi più che altrove, è altissimo il rischio che prevalga un becero qualunquismo all’insegna del “è tutto sbagliato, è tutto da rifare”, del tutto privo di lucidità analitica e di capacità di proposta. Mentre ciò che più manca, è un progetto di società, intorno al quale selezionare la classe dirigente, che altrimenti non può che formarsi sulla base della popolarità, della capacità di ricercare facile consenso, della clientela. Credo che questo sia fra le convinzioni di Monti.

Carlo Di Stanislao

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *