A una settimana dalle elezioni il Cairo brucia di nuovo e sprofonda nella violenza, con un bilancio crescente di vittime, fra morti e feriti. Dopo una giornata di battaglia, domenica scorsa, secondo giorno di scontri a piazza Tahrir, gli agenti hanno attaccato i dimostranti e dato fuoco alle tende. Non solo: Bothaina Kamel, l’unica candidata alle presidenziali, sarebbe stata arrestata durante l’incursione, mentre quattro agenti sono stati presi in ostaggio dalla piazza. E se oggi si apprende che il governo si è dimesso, il Consiglio supremo delle forze armate al potere, non ha ancora deciso se accettare o meno tali dimissioni. I manifestanti dicono che torneranno in piazza, se non si farà da parte l’esercito, mentre oggi, i Fratelli Musulmani d’Egitto, la forza politica meglio organizzata del paese, hanno annunciato che non parteciperanno alle manifestazioni di massa previste anche oggi al Cairo. Il Partito della libertà e giustizia, organo politico dei Fratelli musulmani, spiega che questa decisione nasce dalla preoccupazione di non “trascinare il popolo verso nuovi scontri sanguinosi con partiti che cercano vantaggi dalle tensioni” secondo un comunicato sul suo sito internet. Quello che e’ certo, che le elezioni parlamentari si terranno secondo il calendario previsto, a partire dal 28 novembre, indipendentemente dalle sorti del governo Sharaf, come ha precisato il vice premier Ali el Selmi. Da giorni si susseguono scontri e non solo nell’ormai nota piazza Tahrir. Dagli ambienti del potere e da quelli dei manifestanti arrivano messaggi confusi ed opposti. Un generale arrivato in piazza ha dichiarato all’Ansa, che e’ diritto dei manifestanti quello di fare sit-in, purche’ non sia danneggiata la proprieta’ pubblica ed ha rassicurato che i generali non intendono rimanere al potere, ma vogliono cederlo a civili appena possibile. Considerata insufficiente, questa rassicurazione non e’ servita a fugare i dubbi innescati dalla proposta di modifica costituzionale che mirava a porre i militari al di sopra della costituzione e dei controlli parlamentari. E le cose non vanno meglio in Siria. È fissata per giovedì la prossima riunione straordinaria della Lega Araba sulla situazione in Siria, dopo che l’organismo panarabo ha respinto le condizioni imposte dal regime per ricevere la missione di osservatori prevista dalla roadmap di uscita dalla crisi. Sale intanto la tensione nel paese: all’alba di ieri si è consumato il primo attacco a Damasco dall’inizio della rivolta, con il lancio di due granate contro una sede del partito di regime Baath. Mentre il presidente Assad in un’intervista al Sunday Tomes ha detto di non avere intenzione di sospendere la repressione che secondo l’Onu finora è costata la vita a 3.500 persone. In Siria si sta scivolando inesorabilmente verso la guerra civile. L’ opposizione ha aumentato le incursioni nelle città. Con agguati alle forze dell’ ordine e attacchi contro luoghi simbolo. Dopo aver colpito la sede dei servizi segreti dell’ aviazione, è toccato agli uffici del Partito Baath (al potere) in uno dei quartieri più protetti di Damasco. Un commando, forse arrivato in moto, ha lanciato una granata assordante e tirato dei razzi anticarro. Pochi i danni ma grande l’ effetto propagandistico. Tanto è vero che il ministro degli Esteri siriano Walid Muallem ha dapprima smentito l’ attentato ma poi lo ha confermato indirettamente. In queste condizioni i pericoli di una lotta tutti contro tutti sono concreti. Inoltre, non si contano più le sparizioni, i rapimenti, gli omicidi compiuti da diverse fazioni. . Il timore di molti osservatori è che Damasco non abbia più la capacità di imporre il suo ordine ma che neppure i ribelli (da soli) possano sperare di prevalere. Dopo la sospensione della Siria, mercoledì scorso la Lega araba ha concesso tre giorni di tempo al regime di Damasco per porre fine alla repressione, minacciando sanzioni economiche. L’ultimatum è scaduto alle 23 italiane di ieri. In una sua intervista di ieri, Assad ha accusato la Lega Araba di aver sospeso la Siria dall’organizzazione proprio per fornire un “pretesto a un intervento militare” nel Paese. Un intervento come quello in Libia, ha ammonito il leader siriano, scatenerebbe “un terremoto” in tutto il Medio Oriente: “Una campagna militare destabilizzerebbe tutta la regione, e tutti i Paese ne pagherebbero le conseguenze”. E ha aggiunto, perentorio: “Un intervento militare in Siria provocherebbe un terremoto in tutto il Medio Oriente”. Molto importante, a questo punto, sarà verificare il comportamento degli USA. La crisi economica che ha investito l’occidente, il crescente divario fra ceti e paesi poveri e ricchi e il cambio di dirigenza del Partito Comunista hanno dato spazio, negli USA, al nazionalismo ed all’aumento dell’influenza dei militari. La politica estera si è fatta più assertiva, anche se non può definirsi aggressiva, ma, al contempo gli statunitensi temono l’aumento della potenza militare di Pechino, con cui hanno contenziosi per lo sfruttamento delle risorse dei Mari Cinesi Meridionale ed Orientale e che, di fatto, controllano economicamente sempre più nazioni del Medio-Oriente. E poi c’è la questione Iran. L’ostilità nei confronti degli Stati Uniti e la ferma opposizione a qualsiasi forma di dialogo con Israele, sono dei punti fermi nella nuova politica estera iraniana sotto l’egida di Ahmadinejad. Perché un paese che potrebbe scegliere la via più facile dell’apertura all’Occidente per sviluppare un’efficace politica economica si vuole trincerare dietro a dei baluardi ideologici invece di sfruttare a suo vantaggio la vantaggiosa posizione che deriverebbe al paese dalla recente crisi petrolifera? Naturalmente la religione islamica gioca un ruolo fondamentale. Gli Sciiti secondo il prof. Sariolghalam rifiutano una gerarchia nazionale basata su rapporti economico-istituzionali e hanno una concezione della società basata su una gerarchia puramente di tipo etico-spirituale. Il timore però in qualche modo di finire sotto il giogo americano ossessiona l’Iran sin dal 1979. Nonostante la sua dinamicità la società iraniana non può essere considerata una società democratica, perché mancano in Iran un movimento democratico e un adeguato sistema partitico. Dal punto di vista economico tentativi di migliorare l’economia iraniana sono stati intrapresi in passato sotto Muhammad Khatami e Akbar Hashemi Rafsanjani, ma i gravi problemi strutturali non permetterebbero a nessun governo nel breve periodo di operare un miracolo economico. L’errore più grande ( e reiterato da anni) nella gestione della crisi iraniana da parte dell’Occidente è di tenere lontani dal tavolo delle trattative gli altri paesi arabi, mentre Ahmadinejad quando parla si rivolge all’intera comunità musulmana. L’Iran sta dimostrando a tutti i musulmani arabi che frapporsi agli interessi degli Stati Uniti in Medio Oriente oggi è possibile, che adesso è il momento delle rivendicazioni, che bisogna sfruttare questo momento di debolezza degli Americani per alzare la testa.
Carlo Di Stanislao
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