“È impossibile descrivere la tristezza dei loro occhi e l’odore della loro vita. Un odore acre, alcolico. L’odore dell’emarginazione”: è così che Francesco Paolucci e Andrea Mancini, reporter aquilani, descrivono un vecchio capannone abbandonato nella periferia est della città, in cui vivono due operai rumeni di 32 e 44 anni che “scoperti” nel loro “riparo” hanno accettato di raccontare la propria storia, senza essere ripresi dalla telecamera. Sono impiegati nella ricostruzione del capoluogo abruzzese, lavorano senza contratto, pagati a settimana, con il terrore costante che qualcuno possa scoprirli: “Quando siamo a lavoro guardiamo sempre, se viene qualcuno scappiamo”.
Prima di arrivare in questo capannone (che ha il tetto in amianto) vivevano in affitto in una stanza: 650 euro al mese per quindici metri quadrati. Quando sono arrivati qui, c’erano altre 3 persone che poi sono andate via. Si apprestano a passare l’inverno senza riscaldamento, senza luce, senza acqua; non si lamentano: “No, non fa freddo. Ci siamo abituati” dicono, forse anche per non essere commiserati, ai due giornalisti. Solo qualche candela per avere un po’ di luce la sera, coperte, due materassi rialzati da terra con delle tavole di legno, una sedia per comodino, bottiglie, vetri delle finestre rotti. All’Aquila, si sappia, già da qualche settimana la colonnina di mercurio scende nottetempo ben sotto lo zero: “Siamo al limite della dignità umana” – riportano i due cronisti che hanno scoperto questo riparo per caso, attirati da alcuni panno stesi nel mezzo di una zona industriale.
Non hanno un’auto. Ogni mattina alle sette qualcuno passa a prenderli e li riaccompagna a sera. Cambiano ditta ogni sette, quindici giorni. Dai “padroni” come chiamano loro le persone per cui lavorano, ricevono 50 euro al giorno; il pagamento avviene ogni una- due settimane, nessun tipo di contratto: “Non voglio lavorare a nero, non ci sono regole” afferma uno di loro. Non esistono per nessuno.
Il servizio realizzato dai due reporter ha molto circolato in rete ed è rimbalzato sui media locali. Ci si aspettava che i due potessero essere almeno contattati dalle forze dell’ordine. Nulla. Evidentemente il lavoro nero all’Aquila fa parte del gioco: “Andando via – affermano i due aquilani alla fine del loro servizio – quello che rimane, dopo averli salutati, al di là di un senso di vuoto e di impotenza sono alcune domande. Quanti ce ne sono di questi lavoratori stranieri dei quali si ignora l’esistenza? Chi sfrutta queste persone, conosce le loro condizioni di vita? Chi sfrutta queste persone, ha mai dormito senza termosifoni all’Aquila in pieno inverno? Ci può essere una ricostruzione della città fatta anche da schiavi? Sì, schiavi. Non c’è un’altra parola”.
Elisa Cerasoli
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