A due settimane dall’accorato appello lanciato da papa Benedetto XVI per “fermare il massacro di cristiani” in Iraq, la situazione è ancora drammatica, con continue manifestazioni di piazza a Mosul e Baghdad, un digiuno e una veglia di preghiera a Kirkuk, appelli per la fine delle “uccisioni mirate” e il secco “no” contro il progetto di “ghettizzare” i fedeli nella piana di Ninive. La minoranza cristiana in Iraq vive uno dei suoi periodi peggiori e, Mons. Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, conferma che negli ultimi giorni centinaia di famiglie hanno abbandonato la città, per un totale di 4000 persone secondo un rapporto Onu. “La situazione si è calmata – riferisce il prelato – e l’esodo è molto più lento. Ai primi di marzo migliaia di fedeli a Mosul sono scesi in piazza per manifestare contro le violenze, ottenendo il sostegno dell’intera città. Tuttavia ieri, un nuovo straziante appello è stato lanciato da Sua Santità Moran Mar Ignatius Zakka I Iwas, Patriarca d’Antiochia e di tutto l’Oriente, nonché capo supremo della Chiesa siro ortodossa universale. Nella nota pubblicata sul sito web del patriarcato, la cui sede si trova a Damasco, in Siria, il patriarca esorta “i Capi di tutti i Paesi arabi e la Lega Araba, le Nazioni Unite e i governanti del mondo affinché sradichino il terrorismo e gli abusi che stanno insanguinando i cristiani dell’Iraq”. “Con grande dolore e pena – si legge ancora nel testo ripreso dalla Zenit – seguiamo quanto sta accadendo in Iraq e specialmente ai cristiani dell’Iraq vittime di persecuzioni, uccisioni, saccheggi, rapimenti e atti sacrileghi: sembra che il diavolo abbia arruolato questi uomini per diffondere il caos nel Paese e tra la gente”. “Non sappiamo – continua la lettera – perché coloro che sono stati sempre fedeli alla loro patria e attaccati all’eredità del loro amato Iraq prendano ora di mira i cristiani”. Con lo stesso vigore il religioso sottolinea poi che “questi comportamenti disumani sono lontanissimi dalla religione”. “Sfortunatamente – precisa –, questi criminali compiono i loro atti in nome della religione ma l’Islam è completamente estraneo ad essi”. Il capo della Chiesa siro ortodossa si interroga quindi sulle possibili ragioni all’origine delle violenze: “Vi è forse un complotto per svuotare l’Iraq dai cristiani che sono autoctoni di quel Paese? Oppure vi sono progetti sponsorizzati da mani sconosciute che alcuni chiamano un giorno sionismo e l’altro faida o magari da un gruppo di fuorilegge che ha come religione gli abusi ai danni degli altri?”. “Non c’è niente che ci convinca sul perché lo Stato non sia in grado di arrestare e di dare la giusta punizione a questi ribelli e fuorilegge, che sono lontani dai principi propri della religione, del potere, dello Stato, della legge e dell’umanità”, continua la lettera. “Questo ci fa dubitare delle intenzioni dei responsabili ai quali chiediamo individualmente e collettivamente di ottenere giustizia per gli oppressi – conclude il patriarca – perché non possiamo vedere i nostri figli innocenti mentre vengono sgozzati, uccisi, saccheggiati senza che nessuno vi ponga fine”. Il 3 marzo, a Kirkuk, la comunità cristiana ha indetto una giornata di digiuno. Alle 5 del pomeriggio si è svolta una veglia di preghiera comune, per evitare “strumentalizzazioni politiche” alla vigilia delle elezioni, in programma il 7 marzo prossimo. “Il governo ha condannato gli attacchi – ha detto mons. Louis Sako, arcivescovo di Kirkuk – e anche i leader musulmani, perché sottolineano che ‘questo non è l’islam’. Ma alle parole siamo ormai abituati, vogliamo risposte concrete”. Il prelato è durissimo: “è una vergogna che in una città come Mosul, di un milione di abitanti, nessuno ha parlato in maniera forte del massacro dei cristiani”. Il prelato , sempre ieri 3 marzo, ha riferito “l’incoraggiamento e la solidarietà” ricevuta da capi tribù e dalla gente semplice, per i quali “un Iraq senza cristiani non vale niente”. Sempre il tre marzo, nella capitale irachena, nche nella capitale dozzine di persone hanno manifestato contro le esecuzioni mirate, chiedendo al governo centrale garanzie per la sicurezza. Mons. Shlemon Warduni parla di “attacchi ben organizzati” contro i cristiani, vittime di “una politicizzazione del conflitto” fra arabi e curdi. “Rischiamo l’olocausto” afferma il prelato, secondo cui “non basta il conforto e la solidarietà della gente comune, anche dei musulmani”, se dalle personalità politiche e dal governo non arrivano risposte concrete. L’ausiliare di Baghdad è contrario al progetto della piana di Ninive e precisa: “non ci fermeremo… vivi o morti, questo è un momento fondamentale”. Mons. Warduni auspica risposte concrete dal governo, dalla classe politica, dai media che devono riportare “il nostro grido d’allarme”. Di fatto, a pochi giorni da un voto nazionale contrastato e a pochi mesi dal paventato inizio del ritiro statunitense, l’Iraq resta un Paese devastato, instabile, insicuro per la popolazione civile. E se oggi del 2006 come l’anno in cui il Paese fu sull’orlo di una guerra civile, poi scongiurata, il conflitto intestino – sempre negato dagli Stati Uniti, che lo vedevano come la materializzazione del loro fallimento agli occhi del mondo – in realtà si è aggiunto alle distruzioni causate dall’invasione Usa del 2003. Una vera e propria guerra civile che vede opporsi ferocemente sciiti e sanniti e con i cristiani perseguitati e uccisi a sangue freddo, senza che la polizia irachena intervenga a fermare i massacri o ad indagare su di essi. Con poi il “caso speciale£ dei Curdi, che stanno nel loro territorio, che vorrebbero arrivasse fino a Kirkuk, città ricchissima di petrolio dalla quale cercano di cacciare le minoranze sunnite e turcomanne e in virtù della loro fedele rispondenza ai diktat statunitensi, sono parte cospicua dell’amministrazione centrale. Oggi, la campagna elettorale in vista del voto del 7 marzo per il rinnovo del Parlamento, non sta facendo altro che alimentare le forti tensioni che attraversano il Paese: migliaia di manifesti e striscioni in giro per la capitale fanno leva sui risentimenti confessionali, con gli sciiti che dipingono i sunniti come fedeli di Saddam Hussein o legati ad al-Qaida e i sunniti che raffigurano gli sciiti come oppressori pagati dall’Iran. Dopotutto è innegabile l’appoggio statunitense alla comunità sciita in funzione anti-ba’athista. I fatti continuano a rendere difficile una riconciliazione nazionale, la tattica del divide et impera applicata dagli atlantici ha consegnato il Paese al caos. E tutto questo con Washington che finge di non vedere, come quattro anni fa fingeva che non si stesse rischiando la guerra civile. Oggi, l’approccio Obama è fatto tutto di grandi annunci e giri di parole: il nuovo presidente Usa ha deciso di cambiare il nome della missione in Iraq chiamandola “Operation New Dawn”, operazione nuova alba. Il cambiamento del nome è stato rivelato venerdì da un memorandum firmato dal ministro della Difesa Robert Gates, pubblicato da Abcnews.
Carlo Di Stanislao
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