Sabato, mentre il rettore Ivano Dionigi consegnava, secondo l’antico rito medioevale, la pergamena di dottore ad honorem in Relazioni internazionali dell’Alma Mater, nel cuore della stessa Bologna, duecento “indignati” protestavano attraversando la città e tentando di arrivare nel luogo della cerimonia, con respingimento a manganellate da parte della polizia.
Certamente più dura sarebbe stata la reazione della polizia se il Presidente fosse stato Oscar Luigi Scalfaro, scomparso ieri a 92 anni, uomo tutto di un pezzo e cattolico a limite del confessionismo , l’uomo della difesa alla Costituzione e del “ribaltone”, che, nel 1994, convinse Bossi ad abbandonare Berlusconi.
Su Repubblica oggi, un’intervista ad Arnaldo Forlani, ex segretario della Dc e avversario di Scalfaro nella corsa al Colle, dove si sottolinea come la nomina di Scalfaro a presidente della Repubblica fu una “soluzione istituzionale”, scollegata dalla strage di Capaci dove morì Giovanni Falcone per mano della mafia. Ma i dubbi restano, in noi ed in molti.
Personaggio chiave del passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, più giocatore che arbitro nelle tumultuose vicende di Tangentopoli, con una classe politica spazzata via, l’ex presidente emerito ha passato praticamente tutta la vita in politica, tanto che sono in molti a dire che lui è sempre stato “un politico prestato alle istituzioni”. Ed un politico di destra e conservatore, anche se aveva partecipato alla lotta di liberazione.
Da Presidente della Repubblica Scalfari ha fronteggiato con fermezza e linearità periodi tra i più difficili della nostra storia e da uomo di fede, da antifascista e da costruttore dello Stato democratico, ha espresso al livello più alto la tradizione dell’impegno politico dei cattolici italiani, svolgendo un ruolo peculiare nel partito della Democrazia Cristiana.
Ma, tuttavia, va detto e ricordato che lui ha sempre creduto nelle maniere forti e non ha mai ceduto, ad esempio, alle concertazioni.
Sicchè, a Bologna, ci fosse stato lui, la polizia avrebbe picchiato prima, più duro e più forte.
Celebre la sua frase “non ci sto”, pronunciata la sera del 3 novembre 1993 a reti unificate, per difendersi dalle accuse di avere gestito fondi neri ad uso personale nell’epoca in cui era stato ministro dell’Interno. In quell’occasione Scalfaro parlò di “gioco al massacro” e imputò l’esplosione dello scandalo Sisde ad un tentativo di infangare la presidenza della Repubblica come ritorsione della vecchia classe politica che le inchieste di “Mani Pulite” avevano decimato.
Fu certamente un esempio di chiarezza e rettitudini, anzi di “integrità” come ha detto Mario Monti, ma anche di visione reazionaria della tutela dello Stato.
Uomo da sempre di destra, con la sua propensione all’alleanza con i socialisti, portò Bettino Craxi a farlo ministro dell’Interno nei suoi quattro anni a palazzo Chigi (1983-1987) ed a indurre il leader socialista ad accettare prima la sua candidatura a presidente della Camera dei Deputati (1992) e pochi giorni dopo a mandarlo al Quirinale.
Vent’anni fa il presidente della Camera svolgeva una funzione notarile e il fatto che alla guida di Montecitorio andasse un vecchio notabile dell’Assemblea costituente stava bene a tutti.
Nato a Novara da un nobiluomo calabrese, impiegato delle ferrovie, e una nobildonna piemontese, Scalfaro fu in gioventù giudice della Repubblica di Salò. Dopo avere però imposto la giustizia mussoliniana, con la Liberazione, partecipò alle epurazioni come pm nei tribunali per i crimini fascisti. Chiese diverse condanne a morte, ovviamente con la medesima nel cuore, che furono quasi tutte eseguite.
E, lasciando da parte il “prace sepulto”, è certo che lui ha sempre pensato, come scrive su Il Giornale Giancarlo Perna, che è meglio essere “un broccolo nel campo del Signore che un fiore piantato fuori dal campo». Il grosso del suo seguito elettorale era formato da badesse, suore e novizie. Grazie a loro, fu rieletto per undici legislature, finché – dopo il Settennato -, divenne senatore a vita. La presa sulle tonache muliebri era tale che un giorno il cardinale Siri esclamò stupito: “Nessun cardinale controlla tante suore come quest’uomo”.
E credeva con lo stesso impeto e la stessa convinzione nei mezzi duri e spicci della polizia, per risolvere questioni spinose.
A lui non sarebbe piaciuto molto, io credo, il film, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini, edito da Giulio Einaudi Editore, “ACAB”, diretto da Stefano Sollima (quello della serie tv “Romanzo Criminale”), efficace nel mettere di fronte lo spettatore al disagio della violenza, una violenza che non è fisica ma sociale, politica, etica.
Si perché per persone come lui, la polizia non è mai, neanche quanto usa i manganelli (il titolo è l’acronimo di “Al Cops Are Bastards”), fatta di “bastardi” che hanno solo voglia di picchiare ed anzi è composta esclusivamente da eroici gladiatori, che difendono lo stato e le istituzioni, per la miseria di 1.400 Euro al mese, spesso in una età in cui, vari “sfigati”, per dirla con il viceministro Martone, ancora scaldano i banchi universitari.
Carlo Di Stanislao
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