Italia nel gelo, sia atmosferico, portato dal glaciale Burian, che emotivo, dopo che l’ISTAT ci ha detto che la disoccupazione tocca quota 9% (contro il 6 in Germania) e che un giovane su tre e senza lavoro.
Il “Burian” lo possiamo considerare come un figlio dell’immenso anticiclone termico “Russo-Siberiano”, che durante il periodo invernale si sviluppa sopra le grandi steppe siberiana e sull’Asia centrale.
La disoccupazione figlia della lunga strada depressiva imboccata dalla Nazione negli ultimi tre lustri.
La disoccupazione giovanile è al 27,9%, ben superiore alla media ponderata dell’area Ocse (16,7%) e la Fornero dice che il primo dei problemi da affrontare e risolvere.
Come ci ha ricordato l’ISTAT il 40% dei disoccupati ha meno di 30 anni e chi lavora, ha quasi sempre contratti precari. “Giovani e donne sono i più penalizzati perché la via italiana alla flessibilità ha riguardato solo loro, risparmiando i lavoratori più anziani e garantiti. Sono rimasta molto colpita nel sentire i pensionati che si lamentano perché devono mantenere anche i nipoti. Questo è un ciclo perverso. Non è possibile che la pensione di un nonno debba mantenere dei giovani né che questi si adagino su una prospettiva di vita bassa”, scrive il rapporto.
Ma, di là dalle dichiarazioni del governo, oggi non esiste un dualismo nel mercato del lavoro in quanto la precarietà in oltre 15 anni si è allargata come una metastasi tumorale, è divenuta strutturale, generalizzata e coinvolge l’intera esistenza del lavoratore.
Le vicenda Fiat, Finmeccanica, Trenitalia o la Omsa sono esempi di come la precarietà è ormai parte anche di quei lavoratori che formalmente hanno un contratto a tempo indeterminato.
La cosa che i “professori2 del governo dovrebbero non ignorare è che e dopo 15 anni di precarietà (pacchetto Treu e legge 30) l’occupazione non solo non è aumentata, ma i giovani disoccupati hanno raggiunto quota 30% dei senza lavoro, nonostante gli oltre 40 tipi contratti atipici.
Ciò che poi ci risulta difficile capire è cosa c’entri l’articolo 18 con la lotta alla precarietà. L’art. 18 (che vieta il licenziamento senza giusta causa e obbliga il reintegro o il pagamento di un indennizzo per il lavoratore ingiustamente licenziato) si applica alle imprese con più di 15 addetti.
Tra questi, ne sono esclusi tutti coloro che hanno un contratto precario (interinale, a termine, collaborazione, stage…). Inoltre, con la legge 223 del 1991, sono stati introdotti i licenziamenti collettivi tramite l’istituto della mobilità e con il sistema degli appalti si può licenziare anche senza questa norma come insegna il licenziamento degli 800 lavoratori dei treni notturni da parte di Trenitalia.
Le proposte che oggi vengono messe sul tappeto dalla Fornero, con l’assistenza di Ichino, Boeri e Damiano, sembrano copiare quanto avviene nel mondo delle cooperative sociali con il socio lavoratore, dove il contratto di lavoro applicato è formalmente a tempo indeterminato, ma nella sostanza il grado di subalternità e di precarietà normativa e salariale è più elevato e generalizzato che altrove.
E questa non credo sia la strada da seguire.
Come scrive Ezio Casagranda, ciò che invece va fatto e con la stessa celerità delle pensioni, è un miglioramento degli ammortizzatori sociali capaci di svolgere un ruolo attivo sull’occupazione a partire dall’allargamento dei contratti si solidarietà per evitare i licenziamenti, senza dimenticare la richiesta cardine di un reddito minimo garantito e slegato dal lavoro e accesso gratuito ai servizi comuni materiali e immateriali del sistema di welfare.
Senza questo “ciclone”, non abbiamo davvero speranza di uscire dal gelo.
Carlo Di Stanislao
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