Il 25 febbraio 1980, uscendo dal Collège de France, fu investito da un furgoncino e il 26 marzo dello stesso anno morì, a 65 anni. Citato ovunque, osannato negli anni ’60 e ’70, considerato uno dei maggiori esponenti dello “strutturalismo”, Roland Barthes è stato in realtà senza eredi. In pochi, infatti, hanno davvero letto la sua opera ed in pochissimi compreso e trasmesso il suo pensiero. Lo si comprende oggi, mentre si celebra il trentennale dalla sua morte e si chiarisce che il suo sguardo retrospettivo del dolore, si accompagna alla particolare consapevolezza che conferisce al corpus, ampio e in costante mutazione, dei suoi scritti, come del resto a tutte le opere importanti, con una assoluta completezza retroattiva. A trenta anni dalla sua morte, la casa editrice Marcos y Marcos, gli dedica un numero speciale di Riga, collana monografica della casa editrice milanese. Il volume, dal titolo “Roland Barthes: l’immagine, il visibile”, curato da Marco Consolini e Gianfranco Marrone, “traccia una linea di lettura, un punto di vista al tempo stesso preciso e inattuale, inclusivo ed esclusivo: quello dell’immagine, delle immagini, della visualità” e lo fa attraverso una raccolta di scritti di Barthes, alcuni dei quali inediti, arricchiti da importanti testimonianze di Italo Calvino, Umberto Eco e Alberto Arbasino, da saggi di Alain Robbe-Grillet e Susan Sontag e da molti altri contributi. E, in occasione dell’uscita del volume, avvenuta ieri 15 marzo, a Milano è stato organizzato, al Teatro Franco Parenti di via Pier Lombardo, un interessante incontro per ricordare il grande intellettuale francese, un incontro cui hanno partecipato, oltre ai curatori della monografia, due ospiti illustri: Alberto Arbasino e Umberto Eco. E sempre in questi giorni la Einaudi pubblica “Dove lei non è”: una serie di schede per un libro che Bathes non riuscirà a finire: appunti sulla morte della madre, cui era legatissimo. Nel testo, concepito in forma di diario (forma molto amata dal grande semeiolo, che scrisse il suo primo saggio sui Diari di Gide e che tenne lui stesso un diario, oltre a indagare che senso avesse una simile abitudine); l’Autore vive il dolore e non se ne ritrae, appuntandone i cambiamenti, i pensieri, in una sorta di taccuino di viaggio attraverso i territori del lutto, guardandosi attorno, lasciandosi andare ai ricordi quanto osservando quel che lo circonda. Nelle schede e nei frammenti, Barthes indaga direttamente il linguaggio del lutto (che nasce ed e’ espressione di un grande amore) attraverso illuminazioni, frammenti, poesia, come, per certi versi, nei ‘Frammenti di un discorso amoroso’ indagava e faceva parlare il linguaggio dell’amore. Con la coscienza questa volta, forse anche solo la speranza, che vi sia ”Chi sa? Forse un po’ d’oro in queste note?”, come si chiede sin dall’inizio. Un testo intimo e privato in cui ci si apre alla riconoscibilità e la condivisione con il lettore, coinvolto nel dolore per la perdita di questo grande, assoluto amore, elaborazione attraverso la scrittura per reimparare a vivere. Lezione esemplare per noi aquilani alle prese col lutto recentissimo e acuto del sisma e delle sue conseguenze e che certo in molti evocheremo (o tenteremo di fare), con scritti vari nei prossimi giorni, al cadere dell’anniversario del 6 aprile. Ora, per dirla con Barthes, dovremo mostrare un rigore educato e disinvolto, un rapporto con le idee avido e scaltro, che escluda il fanatismo e si produca in forme duttili, multiplo, mai stridente o volgarmente indignate. Da Barthes e dal suo ideale di scrittore, Gide, dovremo imparare l’idea di una scrittura elusiva, disposta a restare ai margini e che, nei suoi rapporti con la politica, mostri una propensione, in tempi di mobilitazione ideologica, a prendere le giuste posizioni, a essere politica ma non fino in fondo e perciò, a dire la verità che quasi nessuno dice.
Carlo Di Stanislao
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