Ancora slogans, cartellonistiche suicidiarie, a fare gran voce, a scrivere frasi che non si leggono sulla carta bianca, ma stanno in alto dove gli occhi fanno fatica a schiudersi.
In una Italia costretta pecoroni, ridotta a elemosinare, urtata e ferita da aggettivi indecifrabili: esodati, marginalizzati, effetti-eventi, critici-collaterali, manca che pure la galera, con i suoi detenuti, si metta a imprecare sul precariato imposto alla dignità depredata, quale ulteriore inferno alla condanna da scontare.
Eppure il carcere non è qualcosa cui è possibile non pensare, non guardare, perché alle devastanti condizioni in cui versa, sono costrette a sopravvivere le persone detenute. In più c’è da tenere presente il deterioramento delle assi di coordinamento sociale: più rimarranno senza lavoro i giovani, gli uomini abbandonati a metà del guado, ove mancheranno i denari per vivere decorosamente, cresceranno le norme disimparate, l’azione riprovevole, una delinquenza che farà delle miserie umane la propria degenerazione.
Non è una bella situazione, non promette niente di buono, in fin dei conti il rispetto delle regole implica la presenza di qualcuno che detenga il potere, che sia autorevole a sufficienza per essere in credito di autorità, per risultare radice profonda a sostenere il peso di una intera collettività.
Se ciò non è, la società non ha più capacità di azzerare le furbizie contrapposte, e può accadere che i valori della solidarietà entrino non solo in conflitto, ma producano una contaminazione-convivenza “forzata” con ben altro dis-valore quale l’omertà.
In una società di vicendevoli protezioni, di mascheramenti e nascondimenti, con la difesa a oltranza di interessi personali, parlare di umanizzare la galera è una impresa titanica, un logoramento creato ad arte per quei pochi che hanno a cuore il valore della dignità umana, della giustizia, anche di chi sconta decorosamente la propria pena.
Scrittori e giornalisti parlano del popolo delle sbarre, piegati dalla stanchezza delle parole usurate, delle vene che non danzano più nella carne, raccontano di detenuti innocenti e di altri colpevoli, accostano le mani alla carta da riempire di simboli, di storie, di vuoti a perdere, avvicinano l’orecchio al battito che non c’è più, riconfermando un carcere morto e sepolto da tutte le sue indicibili rappresentazioni.
Chi parla di carcere senza conoscerne gli anfratti, chi non ne parla per averne vissuto gli obbrobri, chi ascolta inebetito storie disgraziate, chi ottuso e concluso non crede e vorrebbe maggiore punizione, sofferenza, distacco, un muro di cinta che s’alza al cielo, senza consentire l’unico risultato invece da garantire efficacemente: una reale e fattibile salvaguardia della collettività.
C’è sempre assenza di equilibrio, di equità, quando al centro del tavolo di confronto fa il suo ingresso la scala disarticolata della giustizia, in che modo vengono fatte scontare le condanne, quali opportunità detengono le pene oltre alle catene che una prigione espone con poco riserbo, per evitare di ricorrere periodicamente ai soliti condoni e amnistie, misure improprie di sfoltimento di una disumanità diventata anch’essa coatta.
Ri-educare non significa diseducare alla “stanzialità sociale”, alla mera “sopravvivenza”, in una costrizione che diviene consapevolezza di una libertà prossima, nei luoghi e negli spazi ancora più umilianti di una cella, angoli e insenature invisibili dove rimediare al bollino nero dello scarso valore umano acquisito.
Vincenzo Andraous
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