Mentre i lavoratori dello spettacolo sfilano mesti sulle note della “Sinfonia degli addii” di Haydn, di fronte al palazzo dell’Emiciclo, a L’Aquila, per protestare (ancora una volta ed ancora inascoltati), per i tagli della Regione sulla cultura, io penso alla Torre di Babele e al sapere contemporaneo, che mentre innalza una vertiginosa torre delle conoscenze, allo stesso tempo effettua un’immersione ancora più vertiginosa nella crisi del fondamento della conoscenza; sicché ogni politico, si sente motivato nell’ignorare un settore che, se non inutile, sembra secondario e marginale, soprattutto in un momento di crisi.
Per costoro (frutto di una coscienza senza conoscenza), abbandonare 1.200 dipendenti equivale ad un fatto meritorio, necessario a ridurre le spese tagliando ciò che è sempre apparso regalia ed assistenzialismo, perché la cultura, come le idee e le parole, secondo un vecchio assioma rinsaldato nei tempi, “non da pane”, sicchè farne a meno, è un fatto non solo necessario, ma quasi doveroso.
All’ultimo Salone del Libro di Torino, durante il convegno sul Manifesto della Cultura, lo slogan di base recitava: “la politica non deve abbandonare la cultura” e lì si è ricordato Olivetti che, da imprenditore e uomo di cultura, diceva che è questa il più importante e remunerativo degli investimenti.
In quella occasione , Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali, stimolato dal moderatore, Armando Massarenti, ha fatto un breve elenco delle cose da fare. “Prima di tutto – ha detto– va ribadita l’autonomia della cultura. Cultura che, oggi, in Italia, è in rovina. Qui l’idea che la cultura sia importante è matura, ma non passa. Infatti basti pensare che il Ministero dei Beni Culturali nel 2012 avrebbe fondi per 114 milioni di euro, con notevoli tagli rispetto all’anno precedente. Se pensiamo che da esso dipendono 277 centri di spesa, si scopre che per ciascuno di essi c’è un umiliante investimento di 411mila euro. E i tagli complessivi ammontano a 312 milioni di euro”. Che, naturalmente, è una cifra enorme, rispetto al già esegui investimento iniziale.
Carandini ha auspicato una fiscalità agevolata per la cultura e che “la metà dei cosiddetti rimborsi elettorali ai partiti venga destinato alla cultura e che i soldi non spesi non vengano sottratti al Ministero, per essere reimpiegati”. E ha poi chiuso denunciando “l’ennesimo scempio al nostro patrimonio: la discarica che si vuole costruire a Corcolle, a 750 metri da uno dei monumenti che tutto il mondo ci invidia: la Villa Adriana a Tivoli. Mi auguro che il Governo ci ripensi”.
La veemenza di questo appello è stata riecheggiata dall’indignato intervento di Marco Polillo, presidente degli editori, che ha sferzato la classe politica. “Il vero problema è a monte. Qui bisogna dirselo chiaro. Il Governo non ci crede. I ministri, dopo gli interventi su varie testate, non hanno fatto nulla. Le risorse per la cultura, se si vuole veramente, le si trova. Noi editori ci troviamo, addirittura, a finanziare le iniziative statali, come quelle del Centro per il Libro. Gli editori sono pronti, l’Italia è quella che è grazie alla cultura, ma in troppi sembrano non accorgersene”.
Come si vede, era chiaro già allora, che il problema è generale, acuiti, però, da circostanze locali, come la situazione economica grave nella nostra Regione ed il dopo sisma mai davvero avviato nella nostra città.
Il 27 aprile scorso, durante il Festival del Giornalismo svoltosi a Perugia, introdotto da un bellissimo video fotografico di Giovanni D’Alessandro e Stefano Schirato, si è svolto un seminario dedicato a L’Aquila dimenticata, lasciata ai suoi fantasmi e alle sue rovine e completamente assente dalle cronache a tre anni dal terremoto.
In quella occasione il Magnifico Rettore Ferdinando di Iorio, ebbe modo di dire che: “Una forma di sindrome di Stoccolma ha preso le istituzioni. I massimi esponenti della Protezione Civile mi dicevano ‘Magnifico lei deve farsene una ragione, l’Università dell’Aquila è finita’. Questi sono stati gli aiuti e l’approccio delle istituzioni; ma non hanno capito che la salvezza dell’Università dipendeva dalla città e la salvezza della città dipendeva dall’Università. “La facoltà di Lettere e Filosofia è stato il primo edificio in assoluto ad essere ricostruito. Ma ora ma i miei studenti che cosa faranno in mezzo a questa Pompei? Ci sono continui problemi di sofferenza di vivere in questa città, che è stata sradicata completamente”.
Allora va precisato che non è da ora e a causa della recente spending review che a L’Aquila e in Abruzzo la cultura si va progressivamente spegnendo, ignorata da tutti e non aiutata da alcuno.
Ieri mattina, alle 11, davanti al Palazzo dell’Emiciclo, sede del Consiglio Regionale, è andata in “scena” la “Sinfonia degli addii” ed insieme, il lamento di chi, operando nel settore, sa che il problema, prima ancora che di soldi e di attenzione, convinzione e sensibilità.
E se non si trovano fondi e risorse, idee ed impegno per musei e teatri, per biblioteche e pinacoteche, figuriamoci per i settori ritenuti marginali e minori, come, ad esempio, il cinema, che pure ha una storia gloriosa e trentennale in questa parte d’Abruzzo e per il quale, nel ’99, si era addirittura stilata una Legge Regionale, disattesa ormai da più di un lustro.
Eppure questa arte recente e sincretica, che sposa lingua, musica, fotografia, costruzione, è stata considerata la più importante invenzione dopo la stampa e oggi sappiamo che, qualsiasi altra forma di rappresentazione non può avere la stessa capacità diretta ed immediata di rendere la realtà e il suo volgere e progredire.
Le sensazioni che riescono a darci certe immagini del cinema non potrebbero essere provocate da nessun’altra forma di espressione artistica e le emozioni che ci sono state trasmessi dai vari film (corti, medi e lunghi) sul terremoto, sono state più esaurienti di saggi, interviste e monografie.
E, a ben vedere, gli eventi organizzati nell’area del sisma da varie associazioni di settore (per primo L’Istituto Lanterna Magica), in questi tre anni, compongono una rete coerente con un preciso filo conduttore: l’elemento che li accomuna è il coinvolgimento della cittadinanza, che trasforma i singoli eventi in esempi di arte pubblica e non solo per la collocazione in uno spazio extramuseale, ma anche e soprattutto, per la esplorazione di un territorio devastato ed assieme sopraffatto dall’incuria e dal cemento, usando come punti di riferimento i luoghi che ospitano i progetti e le immagini che li documentano, prima e dopo.
Tutti eventi che hanno visto il sostegno di Comune e Provincia, di vari, illuminati privati (prima fra tutte la Carispaq) ed assente sempre (o quasi), la Regione.
Molti anni fa, un grande regista, Krzysztof Zanussi (uno dei tre prescelti dalla Nostra Lanterna Magica per la prossima Perdonanza), rifletteva su un tema: nel cinema è possibile la verità? Se ammettiamo che il cinema rappresenta un sogno, si applica la categoria “verità” al sogno? Il sogno può essere vero o non vero?
E concludeva che sì, nel cinema è possibile la verità e così come ci sono i sogni falsi e veri, similmente dobbiamo giudicare anche il cinema e qualsiasi altra forma d’arte.
L’esame della verità per l’artista è però tutto diverso dall’esame della verità per uno scienziato, per un saggista, per l’uomo che usa solo le idee.
Nella costruzione delle idee infatti basta il semplice esame della logica per trovare uno sbaglio, per indicare che la conclusione non è ben fondata.
L’arte è invece sotto un altro regime: l’artista parla come uomo ipnotizzato, produce delle parole e succede che attraverso queste parole egli dica la verità o che menta, o succede che non si renda neppure conto di che cosa ha detto.
Quest’ultima è la possibilità più normale, anche se è umiliante da riconoscere per l’artista: eppure, nessun artista veramente sa che cosa ha detto, lo sa lo spettatore, che tramite la propria intuizione, intuisce se quanto sta vedendo o ascoltando è vero e lo arricchisce (la verità è la ricchezza), o se non è vero e lo indebolisce.
Ma in un mondo della incultura e della indifferenza, l’artista esce dal sogno e riflette e così, oltre a perdere l’ispirazione, perde il sogno e l’illuminazione che potrebbe fornire ai nostri problemi.
Oggi sono in tanti (fra la gente comune e, di conseguenza, fra i politici che da quella gente è eletta), che crede che la cultura non conti più nulla, che sia un bene che richiede solo sacrifici, che non produce ricchezza e che, in effetti, è inutile, in quanto non massifica ed è anzi pericolosa per chi ci vuole manipolare e condizionare.
E c’è in più un altro discorso che riguarda, in generale, cosa finanziare, dal momento che le risorse non sono infinite.
Ci si chiede, allora, se è possibile distinguere tra l’arte buona e quella cattiva, valida e non valida e, pertanto, sostenibile o meno.
Al di là di tutte le discussioni, piene di confusione, sui criteri, credo sia sufficiente utilizzare un banale criterio empirico.
Se accendiamo la televisione, se andiamo al cinema o a teatro, se leggiamo un libro, possiamo misurare con la nostra coscienza se dopo la lettura o lo spettacolo ci sentiamo arricchiti: se dunque siamo in grado di capire meglio la nostra condizione umana, vuol dire che abbiamo avuto a che fare con un’opera buona, vera e bella.
Se invece dopo aver visto uno spettacolo siamo come dopo un’anestesia, più stupidi e distaccati dalla realtà, vuol dire che abbiamo avuto a che fare con un’opera non valida, stupida o brutta.
Questo semplice criterio empirico ci aiuta a giudicare ciò con cui stiamo trattando, a discernere qual è l’opera che ci facilita a capire la nostra condizione, che dà più o meno senso alla nostra vita.
E dovrebbe aiutare i politici, ammesso che vadano a teatro o al cinema o leggano un libro e si siedano davanti alla tv quando sullo schermo non ci sono loro.
E c’è anche chi in questo discorso sul sostegno alla cultura, inserisce anche un problema di natura territoriale, considerando che, di solito, chi parla di assenza di fondi appartiene a quel Sud abituato al parassitismo e all’assistenzialismo.
Così la mesta sfilata degli operatori culturali di fronte a quel palazzo che, per un breve tempo, ospitò quanto di meglio, in sede artistica e culturale, la città sapeva fare e poi, è davvero la melanconica metafora di un babelismo fatto di incoscienza e di totale incultura, con San Michele ammutolito e impotente, dalle vecchie fondamenta del suo antico convento, che cerca disperato di fronteggiare il demone smisurato della ignoranza avanzante.
Ai lati del corpo superiore dell’Emiciclo, con il rimaneggiamento ottocentesco di Carlo Waldis, sopra le due finestre laterali, in due cavità semisferico, e sono contenuti i Bacco e Cerere: il primo simbolo del creato nel suo selvaggio fluire, la seconda a cui Giove assegnò la funzione di civilizzare la natura.
Anche lì, iscritto nella pietra, davanti agli occhi di artisti afflitti ed estenuati, si ripete l’atto inutili di chi cerca di dare peso alla cultura ed ordine alla belluina indifferenza, votata solo a ciò che si ottiene con furbizia e non ai valori da condividere con gli altri.
Ma ci sia di ammonimento il mito. Dopo il ratto della figlia Proserpina da parte di Plutone, diabolico dio degli inferi; la madre Cerere si mette in cerca della figlia, il cui ratto fu visto dal Sole.
La conseguenza fu il deperimento della vita agraria, della’ordine che è bellezza entro le cose. A quel punto Cerere trova rifugio nella città di Eleusi e viene ospitata nel palazzo del re Celio; le viene affidata l’educazione del figlio del re Demofon, che sarebbe dovuto diventare immortale come Proserpina.
Durante quel tempo la terra si trovò sull’orlo della carestia e ciò costrinse Giove ad intervenire e presso Plutone, il quale acconsentì ad abbandonare Proserpina, figlia di quell’ordine della natura che è arte e cultura.
Carlo Di Stanislao
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