Veramente illuminanti e degne di nota le recenti riflessioni del professor Cavalieri sulle contraddizioni nelle quali ripetutamente cade la governance aquilana: “…Limitandoci al solo centro storico, abbiamo […] i due casi concettualmente contrastanti della ex-scuola De Amicis e dell’auditorium di Renzo Piano. Nel primo caso si è imboccata la strada del “dov’era-com’era”, appellandosi ai valori identitari dell’edificio e rinunciando ad altre soluzioni architettoniche più radicali e meno costose che avrebbero riqualificato l’intera area di San Bernardino. Nel secondo caso, invece, non si è esitato a stravolgere massicciamente un’area di valenza altrettanto identitaria come il parco del Castello, collocandovi un ingombrante e costoso edificio di stile contemporaneo. Quale la logica dominante, allora, dal momento che le due scelte sembrano guidate da una confusa schizofrenia progettuale?”
Proviamo a individuarne una, partendo da alcune brevi considerazioni necessarie a circoscrivere l’argomento. Da un triennio assistiamo a discussioni senza costrutto. Fingendo di aderire alle richieste della società civile – mirate alla partecipazione, all’avvio di una nuova stagione di pianificazione urbana che, conferendo nuovo valore ai luoghi, sia capace di accrescere occasioni e opportunità anche nei riguardi di chi non ha diritto al voto – le istituzioni, di fatto continuano ad operare nella più completa autonomia, ignorando metodicamente il parere dei cittadini. Quali possibilità hanno allora gli aquilani che sono al di fuori delle strutture del potere per agire in qualche modo sul miglioramento del modello sociale di sviluppo della loro città? Possono, in definitiva, cambiare qualcosa? Sono le domande che Vaclav Havel, il primo presidente della repubblica Ceca, già si poneva nel lontano 1978, sul suo libricino “Il potere dei senza potere”. L’autore metteva in guardia da una nuova forma di organizzazione del potere, definito come sistema “post-totalitario” che, seppure diverso da quello della dittatura classica, non per questo era meno pericoloso e strisciante. Havel sin da allora intuiva che nonostante le intenzioni della vita si esprimano in modo variegato, libero, secondo una pluralità di forme (una pluralità che fa rima con bio-diversità), “il sistema post-totalitario esige e permette solo una grigia uniformità, il più rigido monolitismo”. A l’Aquila, l’ideologia della governance post-sisma sembra voler sanare questa frattura fra le intenzioni della vita e quelle del sistema: in ciò assegnandosi il compito di spacciare le intenzioni del sistema come quelle che servono la vita degli aquilani. Questa ideologia ha costruito un mondo dell’apparenza da cui i bisogni autentici della civis locale sono pressoché assenti, perché inascoltati. Prende in considerazione quegli aspetti del cittadino e dei suoi bisogni solo per quanto ciò può contribuire alla realizzazione delle intenzioni del sistema. Tuttavia c’è qualcosa che forse sfugge a questa governance: è che i cittadini aquilani non sono soltanto produttori di beni e di profitti, o consumatori. Sono anche – e questa potrebbe essere la loro qualità più profondamente autentica perché scritta nel loro DNA – “creature che agognano forme svariate di coesistenza e di cooperazione, che vogliono influenzare ciò che accade intorno a loro, essere apprezzate per ciò che danno al loro ambiente” e partecipare attivamente al progetto di un nuovo modello sociale di sviluppo e a una nuova idea di città, e in ciò facendo, mettere la natura umana in grado di dispiegare tutte le sue potenzialità. “I nemici della società civile lo sanno ed è questa la molla che li spinge ad avversarla, ad an-estetizzare ogni sua azione”.
Giancarlo De Amicis
Ringrazio De Amicis per la sua lucida e illuminante analisi che mette in risalto a mio avviso la pericolosa e assurda situazione che si è creata nella nostra Città, non solo dal sisma ma anche negli anni precedenti: una classe dirigente e politica lontana dagli interessi dei cittadini, una oligarchia presuntuosa e alquanto ignorante che oggi fa leva con false emozioni e lacrime a tempo sui nervi scoperti dei nostri concittadini. Tutto questo continua a nascondere agli occhi e alle menti meno attrezzate una gestione di casta che da anni ha letteralmente messo le mani sulla Città, dalla Cultura alla Perdonanza, dalle nomine negli Enti alla gestione degli stessi, dalle assunzioni ai finanziamenti dei progetti. Basta fare una analisi attenta dei Bilanci, della struttura dei CDA e della presidenze, della assenza di curruculum e professionalità, della autodeterminazione di stipendi e rimborsi, del rapporto tra costi di gestione e ricavi dalla propria attività istituzionale. Non ci si venga a dire sempre che la gestione della cultura è passiva, che sono a rischio posti di lavoro, ma questi Signori sono mai andati all’estero, hanno mai avuto contezza delle attività di altri teatri pubblici o di altre gestioni della cultura? Si può costare di gestione dell’Ente e del personale 100 per produrre 8? Questo non è possibile bisogna privilegiare e difendere gli artisti e non essere ufficio di collocamento altrimenti questa Città tra non molto vedrà a rischio Il Conservatorio, l’Accademia di Belle Arti etc e a seguire le istituzioni culturali.I Cantieri dell’Immaginario, ottimo progetto, hanno messo insieme tutte le Istituzioni Culturali ma metterle insieme è stato un merito ma anche un rischio perchè ha fatto capire le differenze di valore progettuale, professionale e artistico e senza ipocrisie bisogna che il meglio resti e le rendite di posizione almeno si discutano e si verifichino.Federico Fiorenza