Con una politica sempre più corrotta ed incapace ed un governo che continua a promettere un futuro, ma a sancire sacrifici nel presente, non è strano che, in tutte le piazze italiane, i giovani, i più penalizzati dalla crisi, manifestino in modo duro contro il caro-libri, le banche, la privatizzazione della scuola pubblica e la mercantilizzazione del sapere: tutte cose insopportabile e previste nel dl Profumo, che sarà discusso la prossima settimana.
La volontà espressa ieri dagli studenti italiani è quella di difendere la scuola e il diritto all’istruzione, con slogan e scritte che mostrano tutta la loro incontenibile rabbia, con scontri in ogni città con la Polizia, che ha cercato, in maniera spesso dura, di contrastare il fiume umano riversatosi nelle strade e sotto i vari “palazzi del potere”, al grido di “Monti in miniera e Fornero in fonderia” e con tanto di falò rituali di tessere elettorali.
A Napoli una marea di giovani è sfilata davanti a vari “obiettivi sensibili”, come la Regione e il Comune, con lancio di uova contro la sede della Provincia, per poi dirigersi al porto per manifestare solidarietà all’equipaggio della nave Estelle di Freedom Flotilla diretta a Gaza nel tentativo di interrompere l’embargo.
A Milano il corteo si stava recando davanti alla sede della Regione Lombardia, quando un gruppetto di giovani ha cercato di sfondare il cordone degli agenti. A quel punto la polizia ha risposto con una “carica di alleggerimento”, culminata con alcuni contusi e un giovane denunciato per aver lanciato un
fumogeno.
La manifestazione , composta da un migliaio di ragazzi (dati degli organizzatori), sopratutto delle superiori oltre che dell’università ha fatto azioni dimostrative nei confronti degli istituti di credito, la gran parte agenzie di Banca Intesa-San Paolo con riferimento al ministro Profumo che ne era l’amministratore delegato, e della Siae, la società dei diritti degli autori, e della Aie, l’associazione degli editori, per contestare in particolare il costo dei testi.
Molte agenzie e filiali sono state ricoperte di scritte e di volantini e striscioni. A causa delle iniziative di protesta gran parte del centro, e alcune circonvallazioni sono state isolate dai vigili urbani, mandando in tilt il traffico di mezza città.
A Roma, poi, un corteo composta da studenti dei licei, ha vissuto alcuni momenti di tensione, con tafferugli e cariche delle forze dell’ordine, a Porta Portese.
I manifestanti hanno sfilato per via Marmorata per poi fermarsi davanti alla fermata della stazione metro Piramide, dove hanno gettato un fumogeno in un cestino di ghisa per l’immondizia.
Anche a Torino, la prima giornata di sciopero nazionale studentesco, è degenerata in tafferugli con le forze dell’ordine che, dopo lanci di uova e fumogeni da parte dei manifestanti, sono partite con due cariche che hanno disperso i manifestanti. Il corteo era partito pacificamente ieri mattina intorno alle 9 da piazza Arbarello, per poi sfilare nelle vie centrali della città.
Dopo momenti di grande tensione in cui gli studenti e la polizia si sono fronteggiati e tra le fila dei giovani qualcuno è rimasto a terra, il corteo si è ricompattato sotto la sede del Comune e poi, guardato a vista dalle forze dell’ordine, si è diretto nuovamente in via Pietro Micca, sul percorso originario della manifestazione che si è conclusa con un’assemblea davanti a Palazzo Nuovo, sede dell’Università.
A Bologna 1.500 studenti si sono dati appuntamento in piazza XX Settembre e, nel successivo corteo, che ha attraversato il centro della città, sono state prese di mira le sedi delle filiali di alcune banche contro le quali sono stati lanciati petardi e uova.
A Adnkronos, il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha dichiarato che ha sempre cercato un confronto con gli studenti e ancora che, questa volta, non gli è stato chiesto alcun incontro.
Lo scorso giovedì Monti, in occasione della inaugurazione della Fiera del Levante, aveva detto che: “alla crescita serve molto l’istruzione, la qualità dei servizi essenziali e del welfare, il capitale sociale, la fiducia di ciascuno verso gli altri e verso il potere pubblico”. E per questo ora si deve “dare spazio alla creazione di lavoro, dare spazio ai giovani e alla loro fantasia per entrare nel mercato del lavoro”.
Parole del tutto contrarie a ciò che avviene nei fatti, con tagli al welfare, alla istruzione e agli investimenti sul lavoro.
Filippo Ceccarelli ha scritto sullo scorso “Venerdì” di “Repubblica” che i politici non sono né migliori, né peggiori, ma sono lo specchio degli Italiani.
Questo i giovani lo hanno capito ed intendono cambiarlo, radicalmente. La scusa adottata da tutti della continuità dell’agenda Monti, nasconde una trappola in base alla quale “Monti” più che una persona, un leader o un’agenda politica, è la parola magica per traghettare se stessi e le proprie ambizioni, personali o di gruppo, dentro la prossima legislatura.
E l’annuncio del Professore a New York, di una sua disponibilità a succedere a se stesso come presidente del Consiglio, significa in realtà che Monti è candidato a esserci comunque; anche dopo.
Sicché Marco Ventura su Panorama, vaticina, dopo le elezioni di primavera, una duo composto da lui al Quirinale e da Marco Renzi a Palazzo Chigi: cambiare tutto per non cambiare nulla.
Intanto compaiono sulla scena nuovi tecnici pronti a scendere in politica, per dare l’idea di una sostituzione di classe che però, di fatto, non sostituisce nulla.
Emblematico il caso di Luigi Zingales e del suo pensatoio tecnico “Fermate il declino”, col manifesto strutturale contenuto nel libro “Manifesto capitalista” che, di fatto, è un vero e proprio programma elettorale, che afferma che per risollevare la “questione morale” nella politica come nell’economia, occorre operare una rivoluzione che passi attraverso liberismo meritocratico e l cancellazione di lobbies, clientele, e deregulation.
In fondo le stesse cose che ripete un vecchio tecnico da anni passato in politica: Giulio Tremonti, che adesso che il Pdl è allo sfascio e Berlusconi alle liste civiche, dichiara che sta per fondare un suo partito.
In Italia il cambiamento lo aspettiamo dai tempi del Gattopardo e oggi non riusciamo nemmeno più a dire se sia più corrotta la politica o l’economia, perché il sistema è involuto e invece di avere un economia competitiva abbiamo l’economia delle clientele e delle lobbies, protetta da una illegalità diffusa ed interessata soltanto a perpetuare se stessa.
Speravamo che le cose cambiassero con Monti, invece, il suo governo, sta all’Italia come Enrico Bondi sta alle imprese in crisi, capace rimettere a posto i conti, ma senza né sviluppo né rilancio, né alcuna reale prospettiva.
Purtroppo il tecnico non ha né il tempo né il mandato politico per farlo, ma non possiamo continuare ad essere governati da Francoforte. Ed è questo alla base della rabbia dei giovani scesi in Piazza.
Io la penso come Paolo Barnard e come Sergio Di Cori Modigliani: quello che i giovani stanno manifestando, è l’espressione di una rivolta delle delle coscienze contro la dittatura dell’oligarchia finanziaria planetaria; un salto di consapevolezza interiore che dovrebbe portare ogni italiano a formarsi interiormente di quella necessaria forza d’acciaio spirituale, culturale, psicologica e civile che faccia saltare questo sistema immondo di sfruttamento, oppressione, annientamento della libertà pensante, avvilimento dell’imprenditoria individuale, espoliazione costante della ricchezza; un sistema che produce sbandamento, caos emotivo, depressione affettiva, annullamento della volontà, nel nome di principi, regole e dispositivi, che nulla hanno a che fare con i desideri e i bisogni autentici della cittadinanza e il cui unico scopo consiste nel mantenere lo status quo a difesa dei privilegi di una casta medioevale che sta facendo affossare la nazione.
Se oggi i giovani vivono in uno stato di rabbia e sbandamento è perché sono immersi in un vuoto perenne, perché la produzione di idee viene ancora combattuta, vilipesa, censurata.
E, com’è noto, in mancanza di idee, prevalgono slogan, parole d’ordine e armi di distrazione.
Come ben diceva il grandioso Ennio Flaiano ”a vent’anni ero anarchico, a quaranta ho capito che essere anarchici ed essere davvero eversivi, in un paese come l’Italia, vuol dire invece chiedere, volere, e pretendere il rispetto e l’applicazione delle leggi dello Stato a salvaguardia dello Stato di Diritto”.
Ma come essere sereni in uno Stato in cui prevalgono caste e peggiocrazie e nel quale, un governo chiamato a risolvere problemi urgenti, salva le banche con i soldi della gente più onesta?
Le banche sono finite per diventare degli autentici centri di strozzinaggio legale perché esiste un sistema politico che consente loro di non considerare le imprese produttive un legittimo referente, bensì di considerare come propri legittimi referenti i burocrati funzionari di partito che gestiscono quindi i fondi statali a fini clientelari, impedendo la circolazione della moneta presso i ceti produttivi attivi, ingessando il sistema che diventa così auto-referenziale.
I partiti corrotti nominano i consigli di amministrazione delle banche, e appoggiano un governo che fa avere dalla BCE miliardi di euro alle banche che poi ritornano (attraverso le fondazioni che le presiedono) al partito di cui il presidente è in quota.
Un’altra parte dei fondi ottenuti dallo stato finisce per ritornare allo stato non sotto forma di tasse (le fondazioni sono esenti da tasse; in Italia le banche non pagano più le tasse) bensì sotto forma di acquisto di bpt al mercato secondario, per far rispettare il pareggio di bilancio, creando un giro asfissiante e mortale per cui lo Stato si indebita con se stesso alimentando le banche occupate dai clientes e dalla criminalità organizzata.
L’urlo dei giovani è il segnale che a tutto questo orale le coscienze reagiscono, come si comincia, da qualche tempo e contrariamente agli ostinati fautori di teorie leghiste, a reagire nel meridione.
Una reazione che è vento tiepido e non bufera, brezza leggera ma percettibile, che non si identifica con un partito, né con un movimento o una organizzazione, ma presa d’atto e di coscienza individuale che si manifesta in termini operativi, pratici che, con fatica, entusiasmo, sacrificio, in alcuni casi vera e propria abnegazione, comincia ad organizzarsi , a Catania, Crotone, Taranto, Benevento, ecc., in micro-imprese locali che rifiutano la logica delle mafie ma anche quella clientelare partitico-statalista che ci ha portato a questa condizione di tracollo.
I meridionali stanno iniziando a operare una furibonda rivoluzione esistenziale perché stanno tentando di creare “una realtà alternativa”. Hanno lo svantaggio di operare in un territorio dove ancora la presenza criminale è molto forte ed è reale, e ne sono consapevoli. Hanno lo svantaggio di non poter contare su grandi capitali né su referenti attendibili, perché i partiti politici (nessuno escluso, e quando dico nessuno, intendo dire nessuno) negli anni e nei decenni hanno finito per intervenire nel territorio e sul territorio scendendo a patti e compromessi con la mafia locale, e quindi sono ormai caratterialmente e strutturalmente incapaci e inabili nel riuscire anche “soltanto a pensare” a una qualsivoglia attività che presupponga il non coinvolgimento del malaffare. Hanno il grande vantaggio (che i settentrionali non hanno) di aver alchemizzato nelle ultime quattro generazioni la costante, criminale e asfissiante presenza delle mafie locali che li ha portati a capire (e quindi comprendere dentro di sé) che la mafia produce sempre e soltanto miseria. Non si tratta soltanto di un fatto etico. E’ un fatto soprattutto economico. Le mafie affamano, depauperizzano, espoliano.
E nel meridione la gente l’ha capito. Ma non perché qualcuno glie lo ha spiegato alla tivvù o perché è venuto il Dott. Ingroia o Caselli o Fava sotto elezioni a ricordarglielo. L’hanno capito perché l’hanno pagato con la memoria collettiva sulla loro pelle, perché sono stati testimoni muti, sofferenti e spaventati, per 60 lunghi anni, di ciò che le mafie facevano e di ciò che facevano i partiti i cui funzionari si accordavano con tali mafie. Oggi, la situazione sta cambiando. Tanti e diversi segnali ci stanno annunciando (e la considero una splendida notizia rivoluzionaria che induce davvero a un forte ottimismo) che da quelle parti il cambiamento è già iniziato.
E sta riguardando, non solo da ieri, anche i giovani. Il vento soffia ed è autentico, anche se, per ora, la “barca Italia” ha le vele ammainate.
E’ un vento che ancora fatica a manifestarsi, sovrastato dalla inutilità di polemiche sterili che, ad esempio a L’Aquila, con l’inaugurazione dell’Auditorium di Renzo Piano, si parli della assegnazione dei biglketi e non di un piano strategico e concreto per la ricostruzione.
E alloro voglio augurarmi, in conclusione, che quel vento, sinora timido in questi luoghi, si faccia presto uragano, che spazzi questo asfissiante provincialismo xenofilo italiano ed aquilano, per cui “la salvezza” viene sempre dall’esterno e il Verbo ce l’ha sempre lo straniero.
Smettiamola quindi di guardarci in cagnesco e di attardarci in beghe senza senso e pensiamo invece a realizzare la necessaria rivoluzione culturale (di cui l’economia è soltanto un aspetto tecnico parziale) per costruire tutti insieme il cambiamento.
Ha scritto tempo addietro un grande (e vero) economista, Sergio Cesaratto, che nessuno mai farà una rivoluzione al nostro posto e, al massimo, possono essere ben accetti generosi fornitori di qualche bussola occasionale.
Ma, soprattutto, il grande cambiamento passa solo attraverso una modificazione della propria comportamentalità individuale e attraverso la ricerca di una verità comune, condivisibile collettivamente, che possa funzionare senza dover seguire dei, divinità, miti, icone, slogan o parole d’ordine.
Cominciamo col mettere assieme i nostri non, a precisare ciò che vogliamo che non si faccia, ricordandoci che Croce (come Thomas Mann) e Norberto Bobio, ci hanno insegnato che il dubbio e la negazione sono foriere di molte verità.
Chiariamo e chiariamoci, come italiani e come aquilani, ciò che “NON” voglio, ricordandoci che “NON” era il titolo di una mostra, del 2009, di Stefano Davidson, ultimo grande surrealista nazionale, al cui centro era il concetto per cui, e se la cultura non è forte né condivisa, vi in ciascuno di noi una fragilità, un “l’urlo che manca” ed insieme, una vulnerabilità sociale di luoghi singoli e di Nazione.
Carlo Di Stanislao
Lascia un commento