A rottamare D’Alema ci ha pensato Renzi, mentre, a sorpresa, Berlusconi si rottama da sé (come si addice ad uno che si è sempre creduto superiore ad ogni altro), con una lettera pubblicata “urbi ed orbi”, in cui si ritaglia, per il futuro, un ruolo da accorto e navigato consigliere, affianco, ma senza intrusività, al premier che verrà dalle primarie da indire entro dicembre, con una riforma necessaria in un partito divenuto, strada facendo, incapace e vergognoso.
Nel frattempo una tegola cade in testa a Bersani, per l’accusa mossa dai pm a Zoia Veronesi, che, mentre veniva stipendiata a Bologna, dalla Regione Emilia Romagna, in realtà lavorava alla corte dell’ex ministro, oggi segretario del Pd e in così stretto e diretto rapporto che, ai tempi, veniva chiamata la “sottosegretaria”.
La vicenda, naturalmente, è tutta da dimostrare e un provvedimento della magistratura non può essere scambiato per una condanna, ma l’indagine del pm Giuseppe Di Giorgio mette in grave difficoltà il numero uno del Pd, alle prese con le primarie e impegnato in una competizione spalla a spalla con Matteo Renzi.
Una vicenda che, se dimostrata, è a dir poco non edificante, perché, secondo quanto ricostruito dalla procura, Zoia Veronesi avrebbe svolto, fra il 2008 e il 2010, per un anno e mezzo circa, un lavoro che esisteva solo sulla carta: quello di raccordo fra la Regione Emilia Romagna e lo Stato centrale e le istituzioni; un ruolo cucito su misura per permetterle di seguire ancora Bersani, dopo la fine del governo Prodi e dell’esperienza come ministro.
In realtà già un paio d’anni fa, quando Enzo Raisi, deputato allora del Pdl e oggi di Fli, aveva presentato un esposto sul tema, lei aveva risposto per le rime: “Sono una dipendente regionale con orario di lavoro di 36 ore. Nel tempo libero e nei weekend faccio quello che mi pare gratuitamente”. Ma adesso dovrà rendere ragione proprio di ciò che faceva nel suo tempo istituzionale.
Come scrivono oggi i giornali, non c’è – almeno al momento – nessun coinvolgimento “romano” nell’inchiesta.
“Le indagini, allo stato, sono circoscritte alla signora Zoia Veronesi”, ha precisato il Procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, portavoce della Procura, rispondendo alle domande dei giornalisti.
Quanto alla accusata, ha detto di essere tranquilla e che Bersani, con cui lavora da 20 anni, quando è diventato segretario Pd, le aveva chiesto se era disponibile a lavorare con lui. E la decisione era stata di accettare, dopo avere annunciato il 28 gennaio 2010 le dimissioni dalla Regione, diventate tali dopo i rituali due mesi di preavviso.
E non si tratta del primo guaio di Bersani che, implicato, tempo addietro (marzo corrente anno), nel caso penati, cercò di metterci una toppa con una lettera al Corriere a cui rispose, sulla stessa testata, il giornalista Polito, con un’editoriale al vetriolo in cui si ricordava che il segretario del Pd non poteva chiamarsi fuori da fatti gravi che coinvolgevano non uno qualunque, ma il suo ex braccio destro; concludendo che il problema centrale nell’esercizio del potere, tanto a destra che a sinistra, sembrerebbe essere, oggi più che mai, il vecchio detto che “l’occasione fa l’uomo ladro”.
Ma quando il ladro è stato eletto e quello che ruba è il denaro degli elettori la questione si complica.
Si disse allora (e si è ripetuto poi più volte per i vari casi della Lombardia, Del Lazio e di molte altre regioni), che moralizzare davvero vuol dire espellere la politica dalla gestione degli affari e dell’economia. Ma, naturalmente, senza nessuna reale conseguenza. Anzi.
La questione è antica e fu posta da Platone nella “Repubblica”., nel 390 a.C., con Socrate, personaggio principale dell’opera, che affronta il tema in uno dei dialoghi che lo vedono protagonista. Con la creatività che lo contraddistingue il filosofo ateniese illustra il modello ideale di società. Contadini, artigiani, guerrieri e governanti, quattro classi sociali ben definite le danno vita e sostanza. Nonostante la perfezione del disegno il dubbio serpeggia nell’utopia platonica. Chi proteggerà i governati dai governanti? Chi garantirà l’irreprensibilità delle decisioni di chi gestisce e coordina?
L’inquietudine politica della Grecia del IV secolo si diffuse attraverso il Mediterraneo per riapparire, solo apparentemente decontestualizzata, nelle satire di Giovenale, al quali si deve la frase rimasta famosa, dove si sostiene l’impossibilità di promuovere comportamenti virtuosi nelle donne (ma si legga in tutto il genere umano), soprattutto nel momento in cui coloro che dovrebbero orientarle sono a loro volta corruttibili.
Sul tema, l’ultimo secolo è stato il più prolifico. Dagli inquietanti scenari dei tribunali kafkiani agli osservatori ubiqui di orwelliana memoria. Dai giochi linguistici di William S. Burroughs alla graphic novel di Alan Moore. Ma, nonostante gli innumerevoli ambiti artistico-culturali in cui il quesito ha trovato collocazione, il dubbio sembra rimanere irrisolto.
Le democrazie moderne hanno elaborato una risposta basata su almeno due procedure complementari che vanno nella direzione di salvaguardare il diritto dei cittadini ad un equo esercizio del potere. Da una parte la divisione dei poteri. Dall’altra l’istituzione di organismi di garanzia.
Ma è evidente che, almeno da noi, il metodo non ha funzionato e continua a non funzionare.
Francesco Verbaro ha affrontato la questione dalle colonne del Sole 24 Ore e nell’esaminare i contratti di lavoro e i servizi della Pubblica Amministrazione, sostiene che: “a monte, più che un problema normativo, c’è un nodo etico nella gestione delle risorse pubbliche da parte della politica e della dirigenza pubblica che non può essere risolto per legge”.
Dunque un nodo etico, che non può essere risolto per legge, ma per il quale è necessario tornare all’interno dell’individuo.
Nell’evoluzione dei suoi percorsi di formazione, nell’elaborazione dei modelli culturali che per adesione o contrapposizione ne ispirano comunque i comportamenti; in questo senso, la legalità, nel senso più ampio di rispetto delle regole, non è solo il risultato di una buona legge, di un sua corretta applicazione e della certezza di una pronta sanzione in caso di comportamenti illeciti.
Alla separazione dei tre poteri, che la democrazia ha posto come primo presidio allo strapotere dei controllori, se ne affianca un quarto e, questa volta, non i media del cittadino Kane di wellsiana memoria, ma l’inclinazione individuale e culturale verso l’applicazione della norma quale presupposto per la soddisfazione delle esigenze di tutte le parti in gioco.
Ed allora conviene tornare a Platone che nell’utopia politica di una perfetta aristocrazia guidata dai filosofi, indicava nella loro maggiore vicinanza alla verità il criterio che guida le loro capacità di governo. Saranno quindi i “custodi” stessi a proteggere i “custoditi” dalla possibilità di un esercizio perverso del potere., disprezzando il privilegio, gestendo la cosa pubblica (perché è giusto farlo), non per i vantaggi privati che ciò comporta.
Ma naturalmente la prassi recente e più antica ci dice che oggi in Italia si va in senso tutt’affatto contrario.
E, ancora una volta, in questi momenti italiani in cui il nuovo ed applaudito governo tecnico si mostra perfetto per l’economia ma non certo per l’etica verso i cittadini, ancora una mossa contraria al dettato platonico, con un parere negativo ad un emendamento alla Legge di Stabilità (un’altra stangata da 10 miliardi), in base al quale dovrebbero essere i più ricchi, cioè i contribuenti che guadagnano oltre 150.000 euro l’anno, a finanziare la pensione a quella parte di esodati che non rientra nei 120.000 già previsti dal governo con due successivi provvedimenti.
E dovranno (o dovrebbero) farlo, pagando un contributo del 3% sulla quota di reddito eccedente i 150.000 euro, secondo una norma approvata all’unanimità sottoforma di emendamento alla legge, nonostante, dicevamo, il parere contrario proprio del governo che ha commesso il guaio e continua a parlare di equità, della cui natura non applica neanche una virgola.
Carlo Di Stanislao
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