Strane cose davvero capitano in questo Paese dove per salvare un giornalista importante, condannato per calunnia e non certo come effetto della mancanza di libertà di stampa, si architetta un ddl che imbavaglia l’informazione, tale che, se passasse come proposto, sarebbe un monito per gli editori a cambiare mestiere e per gli autori a non vergare più neanche una parola.
Come scrive oggi il Fatto Quotidiano e come detto ieri sera a Otto e Mezzo da Stefano Rodotà, la nuova legge sulla diffamazione a mezzo stampa, approvata dalla Commissione Giustizia e che sarà discussa in aula a partire da mercoledì mattina, è il più pesante tentativo fatto fino ad oggi della politica di tenere il guinzaglio sempre più corto all’informazione; una “legge vendetta” che, con la scusa (che è invece aggravante) di salvare Sallusti, ha permesso ai partiti di rendere le spine dorsali dei giornalisti meno solide, con il ricatto economico e lo spettro del carcere.
Il massimo della pena, 100mila euro, contenuto nell’articolato e che il giornalista sarà chiamato a rifondere personalmente, rappresenterà una minaccia molto seria soprattutto per tutti quei giornalisti che vorranno, in futuro, stuzzicare il potere. Senza essere ricchi di famiglia.
Perché così com’è, la norma, renderà certamente ancora più battuta la pratica della querela intimidatoria, già adesso molto in voga nel “potere” della Seconda Repubblica.
E, in caso di condanna, per il cronista scatterà comunque l’interdizione dalla professione per un periodo da uno a sei mesi.
Unica voce contraria nel mondo della politica, quella del senatore Idv Pancho Pardi, che ha commentato: “Potevamo aprire uno spiraglio alla libertà di stampa e approvare un provvedimento che eliminasse una volta per tutte il carcere per i giornalisti. Invece, come al solito, la politica, asservita alle sue logiche di potere, ne sta approfittando per salvare i propri interessi, in vista della campagna elettorale”.
Così com’è adesso, la legge imbavaglia anche la rete, unico spazio dove è ancora possibile trovare notizie e approfondimenti scevri dal controllo di editori legati a corporazioni e aziende private o gruppi di potere.
La politica ha voluto anche che restasse l’interdizione dalla professione giornalistica in caso di recidiva che potrà essere prolungata fino a tre anni in caso di recidiva reiterata.
Infine, anche una novità: l’aggravante della diffamazione organizzata, un emendamento battezzato dalla stessa relatrice, Silvia Della Monica (Pd) come “anti-macchina del fango“.
E si arriva a minacciare gli editori, soprattutto quelli dei cosiddetti “libri-inchiesta”, con, all’articolo 1 del testo licenziato dalla commissione Giustizia del Senato, che, per eliminare la pena del carcere, inserisce un comma (il 6) che prevede che l’obbligo di rettifica non varrà solo per quotidiani, periodici e testate giornalistiche diffuse in via telematica, ma anche per la “stampa non periodica“, ossia i libri.
Netta la presa di posizione della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, che in una nota scrive: “Una legge contro la libera stampa, come mai forse si era vista. Il Senato si fermi, finché è in tempo. Se non servono leggi sospinte dalle emozioni, meno ancora servono leggi vendicative. Non c’è sacrificio che possa valere l’introduzione di una pessima legge, così come appare dalle ultimissime notizie relative al progetto di legge in discussione, in queste ore, al Senato sulla diffamazione a mezzo stampa: una serie di norme – tenaglia che neanche la scelta di cancellare il carcere tra le pene possibili a carico dei giornalisti rende giustificabile, né potabile”.
La stessa Federazione ha convocato un presidio a Roma per oggi, dalle ore 17.30 alle 19.00, al Pantheon, il tempio degli dei della antica Roma, il luogo per eccellenza della libertà di espressione, che sorge nel posto dove il fondatore Romolo, alla sua morte, fu afferrato da un’aquila e portato in cielo.
Ieri, mentre il senato approvava questa legge liberticida, sempre nella vicina piazza del Pantheon, un gruppo di giornalisti ed autori web, ha organizzato un flash mob per protestare contro “una norma che con la scusa della libertà di informazione rischia di uccidere le nuove forme di espressione sulla Rete”. Tra gli altri, Alessandro Gilioli, Gianfranco Mascia e Guido Scorza, armati di tastiere, mouse e cavi ethernet e circondati da un nastro giallo con su scritto “Scena del crimine. Senatori che uccidono la Rete”, hanno contestato una norma che serve solo ad incarcerare l’informazione.
Sulla questione è intervenuto anche il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che ha spiegato la sua posizione in un’intervista a Repubblica:”Neppure il fascismo – sottolinea – aveva previsto una disciplina del genere. Il codice penale prevede lo schermo del direttore responsabile e tutto, da allora, è riconducibile a quella figura. Nel momento in cui però si estende la responsabilità all’editore, allora il sistema di garanzie e di diritti, il delicato equilibrio che è alla base del diritto di informare e di essere informati rischia di essere compromesso”.
Molto critica anche Milena Gabanelli, conduttrice di Report: “E’ stata scritta da una persona non competente, lontana dalla realtà e dai principi di democrazia e forse non ha neanche frequentato il mondo anglosassone”, dice la giornalista “In parlamento – prosegue – ci sono dei furbi ma anche dei grandissimi ignoranti, si scrivono delle leggi senza pensare alle ricadute. Imbavagliare tutti quanti è al di là di ogni immaginazione”.
Sembrava, nei giorni scorsi, dopo l’audizione in Senato, alla Commissione giustizia, dei rappresentanti sindacali dei giornalisti, degli avvocati penalisti e dei magistrati, che il testo siglato Chiti-Gasparri, potesse essere migliorato e messo in più in linea con gli indirizzi delle democrazie europee e con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sui diritti umani e che si potesse ripartire dai punti condivisi della bozza Pecorella di due legislazioni orsono alla Camera, soprassedendo a nuove norme per il web (su cui si richiede una riflessione molto più profonda).
Ma così non è stato ed è invece uscito l’astio della politica per chi la racconta e la sua vocazione a reprimere duramente, chi si dimostra anche minimamente irriverente.
I punti di equilibrio avrebbero potuto essere quelli della rettifica documentata come causa di improcedibilità, da pubblicare su richiesta dell’eventuale danneggiato o anche spontaneamente da parte del direttore del giornale interessato; l’introduzione di un giurì per la correttezza e la lealtà dell’informazione, con compiti di conciliazione e a garanzia dei diritti dei cittadini per il ripristino immediato del danno eventualmente riconosciuto per errori o per orrori deliberati di stampa; la riparazione pecuniaria con misura massima determinata (trentamila euro) e calibrata su fattori oggettivi e, infine, la riforma, in parallelo, dei meccanismi di valutazione deontologica oggi scarsamente efficace, anche per le scorciatoie che una legge del 1963 consente.
Attraverso questa strada, l’eventuale diffamato avrebbe avuto ristoro di danni subiti a garanzia del proprio patrimonio umano e professionale.
Si sarebbe trattato di una via corretta per “punire” un giornalismo che dovesse risultate fondato su fatti non veri o assunti, per questo, a motivo di attività di disinformazione o lotta contro avversari ideali, culturali o politici e senza sconti a chi deliberatamente volesse fare altro che diffondere notizie di interesse pubblico con lealtà o far circolare libere, diverse, concorrenti opinioni.
Invece, con la scusa di Sallusti che, ricordiamolo, è stato giudicato diffamatore ed anche reiterato, si è punita e bloccata la libera stampa con sanzioni pecuniarie esorbitanti, che, col carcere, hanno tolto la parola soprattutto ai giornalisti che non possono stare sotto la luce dei riflettori, che non godono di potenza mediatica propria, ai piccoli editori e ai giornali liberi della rete.
In definitiva, il testo votato ed approvato, è uno strumento scientificamente concepito per una sostanziale intimidazione, soprattutto per impedire a una stampa libera di controllare i pubblici poteri e coloro che hanno più potere per offrire garanzie di uguaglianza dei diritti a tutti i cittadini, soprattutto se la sua è una voce flebile e senza garanzie.
Mentre, chi sa di dover essere sotto la tensione o il giudizio della pubblica opinione, pare, invece, volere a tutti i costi esserne il controllore incontrollato.
L‘informazione, quella corretta che si fa servizio al cittadino, serve a tutti. Serve a sapere, serve a conoscere, serve a non chiudere gli occhi, serve a tenere alta l’attenzione. Nel nostro paese non c’è la tradizione, tutta americana, della stampa “cane da guardia del potere“.
In America si dice che “il miglior disinfettante sia il sole” ovvero le notizie brutte, quelle fanno paura, devono uscire fuori, solo così potranno essere curate.
La politica non è riuscita a fermare la stampa con la cosiddetta “legge bavaglio”, ma adesso lo fa in pieno, con questo decreto anti-diffamazione, che se ne infischia dell’articolo 21 della nostra stessa Costituzione, che vieta le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo.
Come nel caso della non riuscita “legge bavaglio”, questo decreto non difende la privacy del cittadino, ma quella del potere, dei suoi affari e, soprattutto,dei malaffari.
Insomma, è riuscito (per ora) a Chiti (PD) e Gasparri (PDL), con la complicità di tutti gli altri, ad imbavagliare l’informazione e lasciarla in mano ai pochi eletti dal portafogli ampio.
Carlo Di Stanislao
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