Indipendentemente da come finirà (per ora è in testa Rosario Crocetta, candidato della coalizione Pd, Udc, Api e Psi, con forbice significativa rispetto a Nello Masumeci e distacco considerevole del candito 5 Stelle Giancarlo Cancelleri, da quello del Grande Sud Gianferanco Miccichè e da Giovanna Marano, sostenuta dal Sel, Idv, Fds e Verdi); in Sicilia ha vinto l’astensione, con solo poco più del 47% degli elettori andati al voto, per l’elezione del nuovo consiglio regionale, segno evidente del disamore e della sfiducia dei siciliani (come del resto d’Italia), per una politica sentita come corrotta, estranea, lontana ed incapace.
Questo voto anticipato provocato dalle dimissioni del governatore Raffaele Lombardo, imputato per concorso esterno ad associazione mafiosa – la prima udienza del processo con rito abbreviato davanti al gup di Catania è cominciato oggi – costituisce il giro di boa sulla scorsa legislatura durata quattro anni, trascorsi in una clima di perenne scontro politico, con partiti di maggioranza (Pdl e Pid) passati all’opposizione e partiti di minoranza (Pd) transitati in appoggio all’esecutivo.
Si calcola che, a conti fatti, la Regione chiuderà il 2012 con un debito di quasi 6 miliardi di euro, 100 mila precari e interi settori polveriera da riformare: dalle società controllate ai rifiuti, dai forestali alla macchina burocratica.
Ma, evidentemente, i siciliani non credono che l risposte possano venire dalla politica e soprattutto da quella locale.
Nel 2008 la percentuale dei votanti era stata di poco inferiore al 60%, anche se allora si votò anche di lunedì, in abbinamento con le politiche per il rinnovo di Camera e Senato.
Questa volta invece la chiamata alle urne è stata circoscritta alla sola giornata di domenica e più di una siciliano su due non è andato neanche a votare.
Comunque, chiunque vincerà queste elezioni, si troverà ad affrontare il primo luogo problemi economici e di lavoro e a dover prendere l’iniziativa, con i pochi soldi rimasti, di interventi a favore del gran numero di piccole e medie imprese che si trovano di fronte a problemi di scarsa dotazione patrimoniale, di insufficienti reti di relazioni o di aggregazioni extra locali, nonché di mancanza di garanzie per acquisire nuove risorse.
Ci dice Tomasi di Lampedusa, come prima ci aveva detto Verga, che quella Siciliana è storia antica di cattiva amministrazione, di rapacità e di sopraffazione, in cui il succedersi di rivoluzioni e ritorni all’ordine, conflitti aperti e tregue armate, non ha cambiato sostanzialmente nulla. L’essenza dell’uomo resta la stessa, secolo dopo secolo, e immutato resta il destino di una terra gravida di cultura ma anche di malaffare, una terra desolata e listata a lutto dai suoi stessi abitanti e depredata, sempre, da chi proveniva da fuori.
Una terra dal fatale, terribile, immobile destino, sferzato da un sole violento e sfacciato, narcotizzante anche, che annulla le volontà singole e mantiene ogni cosa in una immobilità servile.
Una Sicilia che ci ricorda soprattutto il Sud de L’Italia: un deserto rantolante ed assetato, metafora di una condizione umana, drammaticamente tenuta sotto al tallone di pochi (pre)potenti ma che, nonostante tutto, si adatta e si ostina a non reagire.
Perché perché il Sud ha rappresentato da sempre, e rappresenta tuttora, un mondo a se. Portatore d’antichissima storia e cultura, di radicate tradizioni, ricchissimo d’impareggiabili paesaggi e d’insigni monumenti, ma nei secoli oppresso e sfruttato, trascurato e dimenticato, talvolta con la connivenza di ben noti esponenti della classe nobiliare e politica, oltre che di una parte della gerarchia ecclesiale.
Con la connivenza o l’assenteismo delle preposte autorità pubbliche locali, come testimoniano in pagine magnifiche, prima Alvaro, Vittorini, Brancati, poi, con una più decisa posizione politica e morale, Silone, Iovine, Levi, e Sciascia.
I guai siciliani di oggi sono quindi antichi ed antica l’ignavia disincantata dei suoi abitanti. Gli uni e l’altra sono già presenti con l’annessione al “Regno Sabaudo” (21 ottobre 1860) e poi al “Regno d’Italia” (17 marzo 1861), che certo no servì, ma anzi acuì l’esistente divario strutturale ed economico fra nord e sud, grazie all’avvento dell’assillante burocrazia “centralista” di stampo piemontese che per le carenze strutturali dei servizi oltre che per l’inadeguata rete di comunicazioni, addirittura inesistente in molte zone del più profondo meridione; polverizzò tutta l’economia e l’imprenditoria dello stesso.
E poiché, sin d’allora, nell’incancrenirsi della crisi, a Torino non si ritenne doveroso o impellente aiutare i nuovi “fratelli italiani” nel risolvere gli atavici problemi; principalmente per effetto della mancanza di sufficienti fonti di lavoro e di qualsivoglia forma d’assistenza; l’acuirsi delle difficoltà costrinse centinaia di migliaia di siciliani ad abbandonare la propria terra per cercare all’estero una pur minima fonte di sostentamento.
Sicché i “nuovi padroni savoiardi”, pervasi da un’ipocrita mentalità sciovinista, avvezzi ai più deprecabili opportunismi, fautori di deludenti guerre coloniali, nulla ritennero di dover fare per contenere l’emorragia dell’esodo. Mentre, in sede locale, fiorivano i falsi difensori degli interessi isolani che, invece, portavano avanti, con nomi diversi, i propri sordidi interessi.
Fu con D’Azeglio che si iniziò quel grande inganno basato sull’affermazione che la semplice attuazione dell’unità geografica della penisola non poteva prescindere dalla necessità di “fare gli italiani”.
Ma è da allora, in forma sempre più virulenta, che gli italiani si fanno di due categorie diverse.
Oltre che adoperarsi per formare una “coscienza nazionale”, sarebbe occorso promuovere tutte quelle iniziative politiche e legislative atte a creare la struttura di uno Stato moderno ed efficiente attraverso cui realizzare un paritetico inserimento dell’Italia fra le altre Nazioni. Un bel sogno che, almeno per quanto riguarda la “coscienza nazionale”, ancora oggi stenta a realizzarsi e, stavolta, non soltanto al Sud.
Ma con l’aggravante, per il Meridione, che molti suoi figli lo hanno ulteriormente spolpato e tradito e reso ancora più povero e distante dai contenuti di una nazione moderna.
Gli astensionisti di oggi sono gi ignavi di ieri, gli eterni vinti del Sud, che non si pongono domande e non cercano risposte e non si applicano, né si industriano , ma semplicemente girano la testa altrove ed alzano le mani.
E questo, molto spesso, in cambio di false “commodidy” che tali non sono e, soprattutto, non fanno il bene comune.
Commodity è una parola inglese che deriva dal francese comoditè, ovvero qualcosa che può essere ottenuto facilmente. Ma l’ignavo astensionista del Sud, che spera in qualcosa di utile senza partecipazione attiva, fa si che ancora oggi il Mezzogiorno viva di elemosina e non sappia in nessun modo sfruttare i 100 miliardi stanziati dall’Unione Europea.
In Francia, anni fa, “Indignez-vous” di S. Hessel fu un caso letterario, ma è evidente che nel nostro Sud abbia avuto scarsa lettura e poca circolazione.
Eppure dovremmo indignarci ed impegnarci noi del Sud, poiché anche ora, il grande patto Nord-Sud non è avvertito dal governo Monti come necessario, dopo gli anni di polemica secessionista e la reazione speculare che si è prodotta in parte della società meridionale e che ha prodotto, come unica prospettiva, per se ed i propri figli, l’emigrazione.
Anche perché, come ricordava Pino Aprile qualche tempo fa, la principale azienda italiana di distribuzione farmaceutica si trova a Matera, una città senza autostrada, ferrovia e aeroporto. Senza contare la scarsissima penetrazione della banda larga e la burocrazia tipicamente italica che, insieme ad una tassazione che arriva al 55%, di sicuro intralcia non poco i sogni imprenditoriali dei giovani “terroni”. Molti di loro, partiti per cercare lavoro al Nord e all’estero, ritornano comunque nella propria terra e cercano di lanciare la propria attività. Sempre più numerose le start up del settore digitale ed i fondi venture interessati ad investire capitali.
Le percentuali, parlano chiaro: il 31% delle nuove aziende nascono al Sud. Non solo: il meridione diventa fucina di idee e proposte imprenditoriali innovative proprio per quelle categorie considerate solitamente “svantaggiate”: donne ed under 35.
Ma quale esempio possiamo dare a questi giovani tenaci e coraggiosi se poi disertiamo il voto per più della metà di chi dovrebbe esercitarlo come diritto per crescere e cambiare?
E c’è un argomento in più contro l’ignavia e l’astensionismo. Nel 2008, prima della crisi, su cinquantamilioni di italiani aventi diritto al voto, andarono a votare trentanovemilioni.
Il numero dei deputati non cambiò e neppure i soldi dei rimborsi perché i milioni di euro da spartire tra le forze politiche, partiti e movimenti, son stabiliti secondo il numero dei votanti, gli aventi diritto. Che votino dieci o venti o trenta milioni di italiani, la situazione non cambia. Tutto viene ripartito secondo le percentuali di voti validi e solo su quelli. Non è difficile trovare in rete l’art. 3 della L. 3 giugno 1999 n. 157, come la L. 2 del 2 gennaio 1997, per non parlare della legge burla del 1974 dopo il referendum voluto dai radicali contro il finanziamento pubblico dei partiti, passato col 90% dei voti a favore.
E poiché non è affatto vero che tutti i politici sono uguali, nell’aprile di quest’anno, firmatario l’on. Fioroni, ha fatto una proposta di legge che darebbe senso pratico e politico alle astensioni rendendo facilissimo e chiarissimo il calcolo del nefando rimborso elettorale ai partiti. La proposta è semplice: cinquanta centesimi per ogni voto realmente ottenuto, di fatto. Sparirebbe così il monte milioni sul totale degli aventi diritto al voto e allora sì che avrebbe senso l’astensione, la scheda bianca, la scheda nulla, con o senza la fetta di salame.
Ma, naturalmente, la proposta è rimasta tale. Allora, in attesa che la legge sia modificata, nelle elezioni tutte (che tutte fanno piovere soldi sui candidati), non dobbiamo mai astenerci, né ritirarci sull’Aventino, anche perché è certo che astenersi od annullare la scheda non servirà a nulla e nulla andrà a modificare.
Carlo Di Stanislao
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